
NON SI VIVE DEL DESIDERIO DI UN ALTRO — parte 1

NON SI VIVE DEL DESIDERIO DI UN ALTRO — parte 2
IL GIOCO DELLE PAROLE IMPARATE

Due giorni in montagna, pomeriggio di pioggia. Per fortuna siamo riusciti a fare una bella passeggiata con pic nic nei magici colori autunnali e siamo anche riusciti a leggere e dialogare su una splendida novella di Pirandello, seduti intorno al camino. Ora, ahimè, non ci resta che giocare…
Non amo giocare e mi presto solo a giochi semplici, che abbiano a che fare con la lingua e che possano essere utili ai ragazzi: ecco Taboo, vecchia gloria dei tempi passati, sempre attuale, un po’ come i classici che proponiamo all’Accademia. Semplice, divertente, rapido.
Ci dividiamo in due piccole squadre e in un batter d’occhio spieghiamo contenuto, regole, scopo: si tratta, banalmente, di fare indovinare ai propri compagni una parola scritta su una carta, senza utilizzare i cinque termini più utili a definirla, riportati sulla carta stessa. Tutto chiaro: si può partire… comincio io, controllata rigorosamente da due componenti della squadra avversaria.
Mi scapicollo in vorticosi esercizi di sinonimi, locuzioni, parafrasi, espressioni strane e desuete e Lucia, mia socia adulta, nel tempo dettato dalla implacabile clessidra, intasca per la nostra squadra 6 carte e sposta in avanti sul tabellone il nostro segnalino rosso.
Pare addirittura divertente! Ora tocca a un ragazzo, sono io a passargli le carte e a controllare che non pronunci le parole taboo. Panico: della prima parola, CARBONIO, non conosce il significato, la cambiamo; della seconda, LOFT, non conosce il significato; la terza, PERCEPIRE, non gliela propongo nemmeno; proviamo con la quarta, COLPA: farfuglia, balbetta e uno scroscio di “cioè…, tipo…, ma sì dai quando uno… cioè…” cade nella stanza assai più fitto della pioggerellina che, sorridendo divertita, ci guarda da dietro i vetri. È talmente nei guai che io, dimentica di essere sua avversaria e subendo, per questo, l’ira dei compagni, non riesco a non bisbigliargli suggerimenti, per sollevarlo dall’erculea fatica che comincia a tendergli i muscoli del collo. Una è andata! E Il tempo è scaduto.
Tocca a un altro: JOLLY, non conosce il significato. Un’altra carta, per favore. PIZZA: facilissima, indoviniamo subito entusiasti… peccato che immediatamente dopo ci accorgiamo che la parola era PIAZZA: “eh va beh, ho solo sbagliato a leggere”! Capiterà lo stesso, e non con lo stesso ragazzo!, con CAMPAGNA che era in realtà COMPAGNIA, con ALLENAMENTO che in realtà era ALLEVAMENTO, con CAMINO che era CAMMINO ma poiché nella stanza di camino ne scoppiettava dolcemente uno vero, era bastato un silenzioso gesto della mano per aggiudicarsi il punto!
Fingendo un esorbitante interesse alla vittoria e un inesistente spirito di competizione, in una pausa di ricognizione, intimo ai miei compagni di squadra di indicare, per prima cosa, a quale parte del discorso appartenga la nostra parola: verbo, aggettivo o sostantivo? Femminile o maschile? Singolare o plurale? Non l’avessi mai fatto… Lungi dall’agevolare il cammino, lo rendo impervio e sdrucciolevole: e così CORRETTO diventa un nome, come lo diventa TRADIRE, mentre ACQUITRINO senz’altro è un aggettivo. Non importa, lasciamo stare.
Ecco che, a un certo punto, capita a un ragazzo la carta BERLINO: non si può dire Germania, muro, capitale ma non importa: come una pallottola sparata da un’arma di precisione, parte immediato un perentorio: “è un personaggio della casa di carta”. Sono l’unica a non capire, mentre i compagni sparano con reazione altrettanto immediata qualche nome proprio: il terzo è quello giusto. Triste, ma efficace. (Mi verrà poi spiegato che La Casa di carta è una nota e seguita serie TV, di cui Berlino uno dei protagonisti).
Mi fermo qui con la cronaca, inutile infierire oltre, e passo alla riflessione. Il vocabolario dei nostri ragazzi – di tutti i ragazzi? Sì, direi di sì, e non parlo solo di quelli stranieri – è quanto di più misero possiamo immaginare, la nostra bellissima lingua sopravvive ridotta al lumicino, la capacità di spiegare ad alta voce è nulla. Non che non lo sapessimo: dedichiamo ogni ora di accompagnamento individuale a fare parlare i ragazzi ad alta voce, a insegnare loro come organizzare un discorso, a esporre una lezione senza bisogno di essere mitragliati da un fuoco di fila di domande. Non è facile per loro: non sono abituati a parlare e neanche a scrivere… e neanche a leggere, la via da sempre più indicata per imparare parole nuove; non frequentano vocabolari e non imparano più poesie a memoria, cosa che rende questa straordinaria facoltà umana un inutile orpello.
Dopo un momento di tristezza, inverto il segno allo scoraggiamento e decido che Taboo salirà agli onori della cattedra. All’alba del nuovo giorno sento con piacere il ticchettio della pioggia che, invece di guastare i piani vacanzieri, mi dà l’opportunità di proporre la rivincita! Dopo un breve, umido giretto, tutti a casa attorno al tavolo, ma questa volta insegno a giocare a Taboo! Carte scoperte e sforzo comune per arrivare a definire ogni parola, anche le più difficili! Ci impegniamo a partire dall’ambito lessicale: «se finisce in ‑are, ‑ere o ‑ire è un verbo di prima, seconda o terza coniugazione! Se è un nome, può essere di cosa o persona o animale; può essere un luogo, un mestiere; pensate a sinonimi o contrari, fate riferimento a episodi vissuti insieme, a persone che i vostri compagni di squadra possano conoscere, a oggetti presenti nella nostra sede, a libri e opere approfonditi insieme». E così, piano piano, cominciamo, proprio come in palestra, un serio allenamento per sviluppare i muscoli della mente, quelli che, se ben curati, lievitano come una ciambella e non si sgonfiano mai più. Poi, rivincita finale: molto, ma molto meglio del giorno prima con grande entusiasmo dei ragazzi. IDARATRE, ROGO, SURF: un successo dopo l’altro.
Da allora, ogni mia lezione con grandi e piccoli comincia con 10 minuti di definizioni: non mi servono le carte e non mi serve vietare parole amiche. Mi guardo intorno e chiedo a un ragazzo come definirebbe “maestra”, “tavolo” o “tenda”, “capelli”: si stupiscono da principio, sembra così ovvio, poi si aggrovigliano, balbettano e solo quando, con il mio aiuto, riescono a sbrogliare la matassa del loro pensiero, sorridono soddisfatti. Non importa, per ora, il lessico forbito: ci arriveremo piano piano, passando dalla maestra all’insegnante, al docente, al maieuta; dal tavolo alla scrivania, allo scrittoio; dalla tenda al drappo, dai capelli alla chioma, da sentire a percepire ad avvertire…
Le parole sono il primo e il più grande tesoro che i ragazzi debbano scoprire e accumulare; senza parole la vita, sempre vuota, porta alla miseria. Lo diceva così quel nostro grande maestro che è Lorenzo Milani: «ogni parola non imparata oggi è un calcio nel culo domani!». Poco poetico, forse, ma terribilmente chiaro!