
IL GIOCO DELLE PAROLE IMPARATE

EDUCARE INSIEME
NON SI VIVE DEL DESIDERIO DI UN ALTRO — parte 2

Si può vivere del desiderio altrui? È la domanda che Gončarov sembra porsi dalla prima all’ultima pagina. ‘Altrui’, per Oblòmov, sono anzitutto gli amici che vengono a fargli visita nelle prime pagine e lo trovano steso nel letto, in una casa impolverata e trascurata; ciascuno ha la sua idea su come farlo alzare, ciascuno i suoi fini. Ma tutti, inesorabilmente, gli fanno patire un insopportabile «gran freddo».
Il primo è Volkov, un personaggio molto mondano, che racconta la frenetica giornata che ha di fronte, piena di ostriche, champagne, feste eleganti. Spietata la risposta di Oblòmov: «Dieci posti in un giorno… ma dov’è l’uomo? in che cosa si è frantumato e sfasciato?». Anche noi, con i ragazzi, conosciamo questa frantumazione della vita, quando le cose non hanno il tempo di depositarsi nella memoria. Passiamo da una cosa all’altra o, quanto meno, invidiamo esistenze fatte così, vite di altri che sembrano vincenti, ma non lo sono affatto. Essere travolti dagli impegni è il modo più comune (e comodo) con cui gli uomini, soprattutto gli adulti, si immunizzano dalla riflessione su di sé e sul mondo.
È poi il momento di Subinskij, collega di Oblòmov, quando ancora non aveva abbandonato la scrivania per il divano. A quei tempi la Russia era un impero così grande e complicato, che il lavoro burocratico impegnava la maggior parte degli uomini istruiti. Subinskij ha fatto carriera: se Oblomov lavorasse ancora, oggi sarebbe un suo sottoposto. Ma a che prezzo? «Ci sei dentro, amico caro, cieco, sordo e muto per tutto quello che c’è al mondo». Ecco un altro grande alibi della vita: impegnarsi per fare carriera e a questo sacrificare ogni altro bene, sommersi dalle pratiche.
Mentre ancora stiamo sorridendo dell’indaffarato burocrate, arriva Penkin, critico letterario e scrittore mediocre, infatuato delle grandi storie di eroi, di amori, di passioni romantiche. Ma nemmeno gli ideali esauriscono l’uomo, che per lo più ha un’esistenza normale, quotidiana, lontana dagli eccessi di bene e di male. Se la letteratura è questo, non incontra mai l’uomo: «nei loro racconti non si sentono le invisibili lacrime, dov’è l’uomo?». Per le lacrime invisibili, le stesse di Oblòmov, le stesse di ciascuno di noi, in questo mondo non sembra esserci posto.
Il personaggio successivo è una persona noiosa, più ancora di Oblòmov: età indefinita, né bello, né brutto, «la sua presenza non dava e non toglieva nulla alla compagnia». Nessuno ne conosceva nemmeno il nome preciso. Persone come lui «sono buone soltanto perché non sono cattive» e anche attorno a noi, ci diciamo, ce ne sono parecchie: troppo poco e troppo comodo non essere cattivi, troppo poco non disturbare una lezione o non turbare la quiete di una stanza: bisogna sapere dare sempre il proprio contributo adeguato, giocarsi, avere coraggio!
Questo fantasma d’uomo ci rassicura, però, sul nostro protagonista: egli non è affatto così, sta cambiando pian piano il nostro modo di guardare alla vita e alle relazioni, ci sta liberando da tanti luoghi comuni e pregiudizi, su noi e sugli altri.
L’ultimo personaggio di questa triste e, insieme, esilarante sfilata è Tarant’ev, un truffatore, che si attacca ad Oblòmov per i soldi e approfitterà di lui fino alla fine, diventando la causa della sua rovina economica. Oblòmov non è ingenuo, ma gli si affida, un po’ perché gli dà l’illusione di risolvere i problemi (gli troverà una casa in cui trasferirsi dopo lo sfratto), un po’ perché, in fin dei conti, è l’unico che lo ascolta davvero e che rimane con lui quando tutti, uno dopo l’altro, se ne vanno.
In uno scenario così desolato, Oblòmov attende l’unica persona di valore che gli voglia bene: Stolz. Sarà lui, con affetto e premura, a riaprire la sua vita, riportandolo in società e facendogli persino vivere una grande storia d’amore, come quelle dei romanzi. Ma, appunto, può Stolz prestare il proprio desiderio e i propri sogni, per quanto grandi, belli e autentici, all’amico? Può, la bella Olga, salvare Oblòmov da se stesso? Si può vivere del desiderio altrui? Si può amare ciò che dell’altro noi desideriamo?
Quando crolla la prospettiva del matrimonio, Olga si dispera. «Olga perché ti tormenti? Tu mi ami e non sopporterai la separazione da me, prendimi così come sono, ama in me ciò che è di buono». Ma è in questo modo che Olga scopre qualcosa di importante: «no, lo interruppe lei, ho capito solo da poco che amavo in te quello che desideravo ci fosse di te, io amavo l’Oblòmov futuro».
In fondo, il nostro protagonista, chiede, dalla prima all’ultima pagina, una sola cosa: di amare e di essere amato così com’è. Alla fine ci riesce: ama e in tanti lo amano. Ama ed è amato da Agafija, umile donna che lo ospita e diventa sua moglie e madre di suo figlio. Lui «voleva solo sedersi sul divano e non perdere mai di vista i gomiti di lei». Lo ama il servo Zachar che, alla fine del romanzo, Stolz incontra, in lacrime, sulla tomba del padrone di cui dice: «ha vissuto per fare contenta la gente intorno a lui, avrebbe dovuto vivere cent’anni». Lo amano Stolz e Olga che si sono sposati: alla fine hanno imparato ad amarlo davvero, così com’è. «(…) ha qualcosa di più prezioso dell’intelligenza: un cuore onesto, fedele! Questa è la sua ricchezza naturale; lui l’ha portata intatta attraverso la vita. (…) Il suo cuore non ha mai emesso una nota falsa, il fango non l’ha toccato. Nessuna brillante menzogna è riuscita a sedurlo e niente lo potrebbe portare su una falsa strada. (…) E’ un’anima di cristallo, traspearente; uomini così ce ne sono pochi, sono rari: sono perle! (…) Se l’hai conosciuto, non puoi smettere di volergli bene».
Ed è perché è amato, che Oblòmov si salva, nonostante quell’apatia che Gončarov battezza col nome di oblomovismo. Così, ci ricorda una ragazza, è accaduto anche a Peer Gynt, nel dramma di Ibsen che abbiamo letto lo scorso anno: salvato dalla sua irrilevanza grazie all’attesa amorosa di Solvejg. «Ecco a cosa sei rimasta fedele» dice Stolz a Olga quando gli confessa che Oblòmov ancora gli è caro, ancora lo ama.
Lo amiamo tutti noi, perché ci insegna che amare è un lento e paziente lavoro su noi stessi e non sull’altro.