
PARLARE DI GUERRA AI RAGAZZI

IL COSTO DELLA CORSA
REQUIEM DI MOZART — parte 2

Il Requiem è la prima opera musicale che incontriamo in questo anno di accademia dedicato al desiderio. Eppure nessuna attività umana è legata al desiderio quanto la musica: non solo perché il desiderio ci fa cantare, ma anche perché la musica fa vibrare in noi delle corde che hanno le stesse frequenze dei desideri. La musica, però, è anche sempre esposta al limite: è un mondo strano fatto di regole ferree, di esercizi quotidiani, di rigore assoluto, di intonazione e di pulizia del suono. Solo attraverso questo rigore si genera la levità. Quando poi a suonare è un’orchestra, rigore e leggerezza si moltiplicano: si impara ad ascoltarsi, ad aspettarsi, a rallentare e ad accelerare insieme e la vita appare in tutta la sua sinfonica bellezza.
Nessun altro linguaggio come la musica, dunque, è capace di coniugare limite e desiderio, riconciliandoli. Forse per questo la leggerezza di Mozart è capace di incontrare il limite estremo, quello della morte, più di qualunque discorso: più delle parole della sequentia scritte da un remoto autore medievale e più delle parole sulla morte dello stesso Mozart, scritte al padre o a un amico.
Requiem aeternam
Le frequenze della morte sono spaventose, fin dalle prime parole del coro, cantate a piena voce: requiem aeternam dona eis Domine. L’orchestra incomincia però con un rincorrersi di timbriche, più che la paura, annunciano un mondo di mistero. Se gli archi, come un sospiro, accentuano il levare, una parte dell’orchestra, con suoni i più rotondi degli strumenti ad ancia, introduce in un mondo quasi fatato. Misteriosa è la morte, sia quando appare come un nemico terribile, sia quando si presenta come una casa a cui tornare: la strada è ignota, come la foresta delle fiabe.
Kyrie
Il secondo brano, il Kyrie, è una fuga potente. L’arte della fuga, in cui temi molto simili, ripetuti da strumenti e voci, si inseguono senza sosta, aveva trovato il suo apice in Bach ed era diventata la musica sacra per eccellenza, la musica dell’organo, della celebrazione, dei canti religiosi. Mozart non è famoso per il contrappunto, la sua musica non ha la seriosità della liturgia. Ma la fuga del Kyrie è portentosa, bellissima, solenne: di fronte alla morte persino l’eterno fanciullo chiama Dio, chiama qualcuno che possa svelare il mistero, illuminare il senso, salvare la leggerezza, salvare la musica stessa. Non si può fare i conti con il morire senza il mistero più sacro.
Dies irae
Il Dies irae toglie il fiato. Incomincia con un grido: è un giorno d’ira, un giorno di giudizio, pieno di tremore, in cui non c’è più tempo, non c’è più il tempo, i secoli si dissolvono. L’orchestra ribatte note veloci, i suoni sono concitati, le parole quantus tremorest futurus fanno letteralmente tremare. Ci chiediamo, insieme ai ragazzi, cosa, della morte, ci faccia più paura e cosa potesse spaventare Mozart. Per molti è il mistero di ciò che accadrà dopo, ma qualcuno suggerisce che, nelle note del brano, si intuisca il dramma di non avere più tempo, di non riuscire ad arrivare in tempo. Tutti siamo impressionati di fronte a quest’opera che Mozart non riesce a consegnare al committente misterioso, di fronte al dramma di non poter concludere la vita al momento giusto. Ogni limite porta con sé un giudizio, suggerisce uno dei ragazzi; per un genio come Mozart, dotato di un talento per la musica ancora insuperato, la domanda non poteva che essere: «che ne hai fatto, del tuo dono?». Non c’è solo mistero nel limite, dunque, c’è anche una domanda di verità.
Tuba mirum
Tutti restiamo incantati dal Tuba mirum, il secondo movimento della Sequentia. Una tromba profonda, squillante, che sembra venire dalle profondità misteriose della vita. Nel cristianesimo, come in molte altre tradizioni, il giudizio universale è annunciato da uno squillo di tromba, proprio come canta il testo medievale. Tutti si svegliano, tutti e ciascuno: così, nella musica di Mozart, i quattro solisti (basso, tenore, contralto, soprano) si passano il testimone e cantano uno dopo l’altro. Come in quegli affreschi (qualcuno di noi recentemente ne ha visto alcuni a Pisa, nel camposanto) in cui al suono della tromba angelica i morti escono dalle loro tombe, ciascuno con la sua storia, con i suoi vestiti e la sua faccia, per affrontare il giudizio. C’è un giudizio universale, poiché tutti incontreremo la morte, ma è anche un giudizio individuale, un passaggio che si deve affrontare da soli, perché il limite, in fondo, è anche quel momento della vita in cui ciascuno è chiamato a dire chi è lui, cosa ha compiuto. Il limite, ci diciamo, può fare paura, ma è il limite che ci costringe a scegliere, a decidere e a deciderci. Un uomo senza limiti è un uomo senza valori, in cui tutto può essere fatto e rifatto daccapo.
Rex tremendae
Anche il terzo movimento della Sequentia ci sorprende. Gli archi annunciano un ritmo particolare: ci ricorda dei passi, come di qualcuno che arriva, che sopraggiunge, con andamento solenne ma anche lieto, come di una persona attesa. Il coro svela di chi si tratta: è il Rex tremendae majestatis, gli ottoni lo presentano come un personaggio solenne, ma non sembra avere nulla di tremendo in verità. Non sappiamo cosa ci sarà dopo la morte ma, suggerisce il brano, se non ci fosse qualcosa, ma qualcuno? Il coro ricorda che la salvezza può essere data solamente gratis, non si può pagare, può essere solamente un dono. Allora il canto si apre alla speranza: salva me, intonano le voci femminili, quasi dolcemente, introducendo una speranza che, fino a qui, era rimasta sopita, non aveva ancora trovato voce.
Confutatis
Corriamo al quinto movimento: il famoso Confutatis. Davvero l’inizio è spaventoso: i rifiutati, i maledetti sembrano rotolare nell’abisso, l’orchestra sembra cantare di una grande rovina, di una frana, di una voragine. Eppure la speranza accesa poco prima resiste ancora, anzi forse è l’ultima parola, l’unica che si salva dal disastro: voca me cum benedictis, cantano le voci femminili e pian piano convincono l’intero coro. È un canto sommesso, il canto del desiderio che non ha più l’arroganza della giovinezza, non ha più la spensieratezza dei bambini: è pronunciato quasi sottovoce; eppure sembra resistere, sì, resistere alla morte, sopravvivere. Forse il desiderio, solo, è più forte della morte?
Lacrimosa
L’ultimo brano che ascoltiamo è il Lacrimosa. Ci incanta, letteralmente. È un pianto: piangono le parole (lacrimosa dies illa), ma piangono anche i violini, che sembrano a tratti quasi singhiozzare, seguendo un ritmo difficile, talvolta quasi casuale, incontrollabile come il pianto. Ogni pianto è tristezza, ma ogni pianto è anche amore e tenerezza. In fondo gli uomini non si amano mai così tanto come quando si scoprono fragili insieme, ci diciamo. Questo pianto, questa tenerezza, sono la parola con cui lasciamo Mozart, consapevoli che c’è ancora molto da ascoltare e da imparare. Ma quello che la musica ci ha insegnato di fronte alla morte senza nemmeno usare le parole — l’amore, la tenerezza, il pianto e la speranza — non lo perderemo, perché è nel profondo dell’uomo. Così fa la musica, in fondo: ci fa scoprire ciò che già ciascuno di noi porta nel cuore, facendolo vibrare sulle sue frequenze.