LA SOCIETÀ CHE DISABILITA

In occasione del Forum del Welfare 2022, “Milano città giusta. Costruiamola insieme”, la Piccioletta Barca è stata invitata a tenere l’intervento di apertura al convegno “Storie di autonomia e opportunità di indipendenza per le persone con disabilità: una riflessione sulla città a partire dall’esperienza di Baggio”. Il convegno si è svolto giovedì 28 aprile, a Cascina San Romano, dentro Boscoincittà.
Riportiamo di seguito l’intervento integrale del nostro presidente, Beatrice Gatteschi.
“Con piacere ho accolto l’invito o piuttosto l’intuizione dell’amico Claudio Meazza a partecipare a questo convegno che non sembra avere immediatamente a che fare con la nostra attività. Che posto ha La piccioletta barca, centro di cultura per ragazzi meritevoli ma privi di mezzi (art.34 Cost.) in questa sede, in mezzo a tante importanti realtà in prima linea sul fronte della disabilità? Che posto hanno i nostri ragazzi senza disabilità apparente di fronte a tanti ragazzi con disabilità conclamata?
La risposta è tutta in quel piccolo aggettivo “apparente”. Provo brevemente a spiegarmi.
Abilità è parola che deriva dal verbo latino habeo, universalmente noto nel suo significato di avere, meno noto nel significato di essere in grado, sapere, potere. Abilità deriva chiaramente da questo secondo significato ed è la capacità di svolgere una qualsiasi forma di attività, differenziandosi dall’attitudine perché mentre questa è originaria, innata, spontanea, l’abilità pur sviluppandosi anche da a un talento naturale, ha bisogno di strumenti ed è frutto della volontà, dell’esercizio e dell’esperienza.
Mi pare si possa dire che esista una connessione fra i due significati del verbo, perché c’è una sapienza nelle lingue che va sempre indagata: verrebbe quasi da dire che “posso, sono in grado di in quanto ho, posseggo.” Questa relazione è vera in molti campi della vita, certamente lo è nel mondo della formazione e della crescita culturale.
C’è una disabilità che non appare, che è sommersa e nascosta nelle pieghe della normalità, che isola e tiene ai margini, che non viene dalla natura ma dalla società. È la mancanza di PAROLA, mancanza che, pur dilagando nella gioventù intera, è tanto più acuta e imponente quanto maggiore è il disagio socio-economico in cui nascono e crescono i ragazzi. Si dice che è cosa moderna e la si imputa giustamente, ma forse anche un po’ superficialmente, all’imperare fra i giovani dei social network. Eppure questa disabilità tipica dei ragazzi che vivono in situazioni di disagio esiste da sempre.
Lorenzo Milani nel 1956, in un bell’articolo dal titolo “Giovani di montagna e giovani di città”, paragonando i suoi ragazzoni di Barbiana, i suoi figlioli, ai ragazzi di Firenze scriveva:
«Io sono sicuro che la differenza tra il mio figliolo e il vostro non è nella qualità del tesoro chiuso dentro la mente e il cuore, ma in qualcosa che è sulla soglia tra il dentro e il fuori, anzi è la soglia stessa: la parola. I tesori dei vostri figlioli si espandono liberamente da quella finestra spalancata; i tesori dei miei sono murati dentro per sempre e insteriliti. Ciò che manca ai miei è dunque solo questo: il dominio sulla parola. Sulla parola altrui per afferrarne l’intima essenza e i confini precisi, sulla propria perché esprima senza sforzo e senza tradire le infinite ricchezze che la mente racchiude.».
Esiste un mutismo sociale e da questo sono affetti i ragazzi di cui ci occupiamo, non certo privi di capacità di pensiero, di riflessione e elaborazione personale, non privi di emozioni, non “sdraiati” come qualcuno li ha odiosamente definiti e, soprattutto, non privi di una meravigliosa attitudine giovanile: il desiderio di ascoltare. “Oh voi che siete in piccioletta barca, desiderosi d’ascoltar…”canta Dante al principio del II canto del Paradiso: da questi versi nasce il nostro nome; sul desiderio d’ascoltar, innato nei piccoli,abbiamo costruito il nostro progetto! Dunque, non privi di attitudini e talenti, i nostri ragazzi, ma certo inabili a dare parola al tesoro che chiudono dentro sé. Perché?
Facendo un parallelismo con i sensi fisici, ho pensato, e mi scuso se scientificamente le cose non stanno davvero così, che almeno nell’immaginario collettivo, il mutismo si lega alla sordità. Non ho parole perché non sento parole. E allora forse: non ho parole belle, importanti e grandi perché non sento cose belle e importanti e grandi e magari anche perché non vedo cose belle importanti e grandi.
Quando ho davanti uno dei miei ragazzi, quando gli racconto qualcosa di bello, io vedo i suoi occhi brillare, percepisco il suo cuore battere e soffro molto di fronte alle sue labbra serrate. Perché non parli? Gli chiedo. Perché ho paura di dire una cosa stupida, perché non so dire bene quello che penso, perché non interessa a nessuno quello che penso io.
Dunque i ragazzi sono muti, non sanno parlare perché non hanno la chiave della parola. Non hanno due cose: il bello e il coraggio. E qui, diciamocelo, c’è una forte responsabilità della comunità educante adulta, qui è la società che disabilita!
Da una parte, i ragazzi non hanno adulti che donino loro il Bello, che riempiano i loro occhi e le loro orecchie della bellezza-e-bontà che i Greci sapientemente univano nell’unico grande valore della kalokagazìa, essenza della virtù; dall’altra, non hanno adulti che abbiano fiducia in loro e donino loro fiducia! I nostri ragazzi sono terrorizzati perché gli adulti non fanno che ripetere loro: tu non puoi, non puoi farcela! Lo vediamo bene nella scelta della scuola superiore, lo vediamo nella resa immediata alle mille “certificazioni salvatutti”, di fronte alle prime difficoltà scolastiche. Non hanno adulti che dimostrino di interessarsi veramente a loro e all’infinito di cui sono muti portatori.
È quanto cerchiamo di fare noi adulti quotidianamente nel nostro Centro di cultura, dove cerchiamo di instillare nei cuori e nelle menti dei ragazzi il coraggio e il Bello.
Tu puoi certamente, tu puoi perché sei bravo e io ti aiuto, io sono qui con te è la risposta che diamo alla loro paura e al loro scoraggiamento. Ma soprattutto diamo loro le parole belle e buone dei grandi classici della letteratura, le note belle e buone della grande musica, i contorni belli e buoni della grande arte, non ridotti o semplificati, non traslitterati per ragazzini di periferia, ma le parole autentiche, originarie, difficili, ricche, feconde. Sono gli strumenti che raccolti da loro e fatti lentamente lievitare con la volontà, l’esercizio e l’esperienza necessari allo sviluppo di un’abilità, speriamo – ma siamo abbastanza certi! – possano diventare chiave per liberare le infinite ricchezze che la loro mente racchiude”.