
EDUCAZIONE E POTERE: L’IMPRONUNCIABILE

VOLENTEM FATA DUCUNT, NOLENTEM TRAHUNT
PURGATORIO: CANTO XVII E CANTO XXX — parte 1

Finalmente! Finalmente siamo grandi abbastanza per affacciarci alla Commedia, divina per Boccaccio che la incoronò con questo aggettivo già intorno al 1360 nel suo Trattato in laude di Dante, divina anche per noi che a Dante guardiamo con una reverenza e un affetto tali da trarre dai suoi versi il nostro nome.
A ben pensare, ogni anno avremmo potuto – e forse dovuto! – inserire la Divina commedia nei nostri percorsi: non aveva forse da dire la sua riguardo alla parola amicizia intorno alla quale abbiamo tessuto l’Accademia del 2017, essendo scrigno di amicizie esemplari? Non sarebbe stata maestra con la parola viaggio, essendo viaggio per antonomasia? Non avrebbe arricchito il discorso sul sapere, essendo somma di sommi saperi? Non si sarebbe inserita con naturalezza lo scorso anno dedicato al dialogo, essendo poema dei dialoghi? Impressiona come La Divina commedia sia materia duttile e malleabile, enciclopedia sconfinata di cultura, di bello e di brutto, di male e di bene, di riso, di pianto, di pace e di angoscia… Colpisce come possa sedersi, ospite gradita e perfetta, a ogni tavola, anche al “tavolo dei piccoli”; commuove con quanti colori, sapori, suoni, materiali e profumi sappia allietare tutti i nostri sensi. Impressiona, colpisce e commuove ma, a ben pensarci, non meraviglia: la Divina commedia può tutto come tutto può l’Uomo, come tutto può ognuno di noi.
Dunque, ogni anno, con ogni parola il poema avrebbe potuto farci compagnia, ma il suo legame con il desiderio è talmente forte che a lei affidiamo l’ultima parola quest’anno, a lei lasciamo il posto d’onore e il compito di chiudere lo spettacolo con il botto più autorevole. La Divina commedia è il poema del desiderio perché l’Uomo è desiderio. E ora i ragazzi sono perfettamente equipaggiati per comprenderlo.
Chiediamo loro di pensare come entri il desiderio nella Commedia e una ragazza di prima media, pur non avendo ancora accostato a scuola il poema, dice sicura che ogni uomo, proprio come Dante,desidera andare in paradiso; un’altra ragazza dice che la commedia canta il desiderio di capire cosa ci sia dopo la morte; un’altra ancora il desiderio di uscire dallo smarrimento, dalla selva oscura. E nulla di questo è fuori luogo. Fra la selva oscura e il paradiso il cammino è lungo e impegnativo: dall’inferno, Dante non raggiunge il paradiso direttamente, ma lo fa attraverso il purgatorio. Cosa è mai questo purgatorio? Un luogo di passaggio, dice qualcuno; un luogo in cui si attende di essere giudicati, una via di mezzo, una collina da salire con fatica; un palazzo alto egrigio, con le finestre in mezzo alle nuvole.
Mettiamo, grazie a Dante, un po’ di ordine a queste intuizioni.
Il purgatorio, anzitutto, non è un luogo di giudizio: si colloca su una strada a senso unico che, dopo una purificazione, porta le anime in paradiso. In questo senso, è anche un luogo di attesa in cui la libertà raggiugne la sua lenta perfezione. Fino a Dante il purgatorio non aveva un suo immaginario: era un inferno un po’ meno inferno o un paradiso un po’ meno paradiso. Il sommo poeta è il primo a dargli una forma definita, per la quale non immagina scenari eccentrici o sbalorditivi: la cosa più simile al purgatorio è, infatti, la vita sulla terra. Dopo il buio perenne dei gironi infernali e prima della luce perenne dei cieli, qui tornano spazio e tempo: un monte e il ciclo della luce. In cima al monte, d’altronde, le anime trovano quella parte di mondo a cui da sempre l’uomo era destinato: il paradiso terrestre. Lucifero, il più bello degli angeli, precipitato sulla terra a causa della sua hybris, provoca l’orrore della terra che, per non avere a che fare con lui, si ritira formando la voragine infernale. Il riporto di terra che ne consegue non è solo la montagna del Purgatorio, ma anche l’allontanamento dell’Eden dall’esperienza umana. Quel mondo dell’origine a cui eravamo destinati, a causa della caduta è diventato inaccessibile se non attraverso un faticoso cammino; là, all’alba della storia, l’uomo, la donna vivevano in armonia e in trasparente fiducia, tra loro e con Dio. Quel senso di nostalgia che ognuno di noi prova, come se avessimo smarrito un incanto, è il fondamento della visione dell’uomo, che Dante trae dalla tradizione biblica. In greco, nostalgia significa letteralmente “dolore del ritorno”: non si prova nostalgia se non per qualcosa di bello che si è già, in qualche modo, conosciuto. Il male è proprio questo: l’inaccessibilità di quella promessa che sta all’origine della nostra vita. Il purgatorio, dunque, è la strada di un ritorno, è la via di casa, proprio come per l’Ulisse di Omero (che Dante non conosce del tutto) è il suo travagliato peregrinare. Non si tratta, allora, di scontare una pena o di conformarsi a una figura ideale di uomo virtuoso, ma di diventare pienamente se stessi.
L’origine di questa drammatica è nei primi capitoli del libro della Genesi. Vi si racconta la grande gioia di Dio nell’aver creato il mondo e l’uomo: tob è la parola ebraica, che traduce il greco kaloskagathos. Come se non bastasse, Dio pone l’uomo e la donna dentro a un giardino (in persiano, giardino suona proprio come ‘paradiso’): ordine nell’ordine, kosmos nel kosmos, affinché con la loro libera scelta essi possano coltivarlo e custodirlo. I ragazzi conoscono a grandi linee la storia, ma nessuno l’ha mai letta davvero: lo facciamo insieme. Nelle sfumature del testo, ad esempio, si intuisce bene che a proposito dell’albero che sta nel mezzo del giardino, quello della conoscenza del bene e del male, Dio non pone un comandamento, ma offre un avvertimento: tra le infinite possibilità della libertà vi è anche il male, che porta alla morte: «non ne devi mangiare, poiché ne moriresti». A trasformare una parola di cura in divieto, ci pensa il serpente: «disse alla donna: è vero che Dio ha detto che non dovete mangiare di nessun albero del giardino?». La risposta della donna preannuncia il fallimento: possiamo mangiare di tutti gli alberi, ma di quello nel mezzo del giardino «non dovete mangiarne, né toccarne», ha detto Dio. Come nel gioco del telefono senza fili, il messaggio iniziale si altera nei suoi passaggi e così la cura diventa legge.
Tante volte queste alterazioni accadono anche nella nostra vita quotidiana, quando l’attenzione degli altri si avvolge del nostro stesso sospetto e ne esce snaturata. Allora, il più delle volte, la confidenza è compromessa. Così accade nel Giardino: l’uomo e la donna finiscono per mangiare dell’albero, si sentono minacciati dalla presenza di Dio, si scoprono nudi e si nascondono: la confidenza dell’origine è smarrita e solo la lunga strada della storia potrà riaprire la via per il Giardino. Ma non nell’azione si compie la tragedia, bensì nel desiderio, che, come sappiamo è la forza che guida il mondo e la storia.