
PURGATORIO: CANTO XVII E CANTO XXX — parte 1

PURGATORIO: CANTO XVII E CANTO XXX — parte 2
VOLENTEM FATA DUCUNT, NOLENTEM TRAHUNT

Milano è bellissima. Ritagliarmi uno spazio tutto mio per visitarla, scoprirla, indagarla mi fa bene agli occhi, alla mente e al cuore e suscita sempre in me importanti riflessioni. Milano è bellissima, da sempre crocevia di storia e cultura, teatro di eventi memorabili, ostello di personaggi straordinari: uno per tutti, Leonardo da Vinci.
Milano è testimone di ognuna delle doti della caleidoscopica genialità di quest’uomo. Il Cenacolo, certo. Le chiuse dei Navigli, certo. E poi il Codice Atlantico e il Ritratto del musico alla Pinacoteca Ambrosiana, la Sala delle Asse al Castello, le Gallerie Leonardo al Museo della Scienza e della Tecnologia, gli strumenti musicali al piccolo e prezioso Museo delle Scienze e delle Arti.
A Milano, Leonardo fu architetto, ingegnere, scienziato, pittore, inventore, musicista. E fu anche contadino, superbo e orgoglioso viticoltore fu! E questo suo pollice verde completava in modo commovente quella mano miracolosa e raramente eguagliata che, con pari maestria, stringeva un pennello, un compasso, una matita, un righello, un bullone, una lira.
C’è un luogo nel centro di Milano, testimone discreto di questa sua anima green poco nota: è la Vigna di Leonardo, situata in corso Magenta, proprio di fronte al superbo complesso di Santa Maria delle Grazie, scrigno del Cenacolo. La storia di questo posto magico è bellissima: proprio per ringraziare il pittore per la realizzazione dell’Ultima Cena, Ludovico Maria Sforza, detto il Moro per l’incarnato del suo volto, nel 1498 gli donò una vigna di 16 pertiche (poco più di un ettaro) in fondo al giardino della Casa degli Atellani, nel Borgo delle Grazie. Era questo il quartiere residenziale dove il duca di Milano sognava di radunare tutti i suoi amici più fedeli, fra i quali, appunto, i cavalieri Atellani e lo stesso Leonardo che, da genio qual era, si dedicò con grande cura e passione ai suoi filari, ricavandone uve meravigliose. Ma arrivarono presto i Francesi che, due anni dopo appena, sconfissero e imprigionarono il Moro, costringendo molti fra i suoi più intimi amici a lasciare la città. Leonardo partì, ritornò, ripartì senza perdere mai il legame col suo terreno, che incluse persino nel suo testamento: una parte la lasciò al suo intimo servitore, una parte al suo allievo prediletto Gian Giacomo Caprotti detto il Salaì.
Case e vigna nei secoli passarono di mano in mano e subirono diverse traversie, finché, nel 1919, i due edifici furono uniti e magistralmente ristrutturati dall’architetto Portaluppi: moltissimi affreschi (fra cui diverse massime latine, come quella che dà titolo al mio articolo) rinvenuti alle pareti, così come molte novelle di Matteo Bandello, che si svolgono in questi spazi, testimoniano come le case e il loro magnifico giardino fossero al centro della vita mondana milanese per tutto il periodo sforzesco.
A mia memoria, per tantissimi anni il luogo rimase chiuso e nascosto per tornare a splendere, come molti altri gioielli milanesi, in occasione di Expo 2015, quando le prenotazioni di folle turistiche rendevano l’accesso complicatissimo; poi i due anni di chiusura per covid… insomma, luogo a me troppo a lungo inaccessibile, mi si è finalmente mostrato, pochi mesi fa, in tutto il suo fascino e mistero!
Una parte della casa, con arredi originali, è diventata un museo, una parte è abitata da fortunate famiglie milanesi (ho scorto alla finestra più di un attempato distinto signore), un’altra parte ospita sei lussuosi appartamenti con vista sulla cupola del Bramante, dati in affitto per brevi o lunghi periodi a chi se li può permettere. La Vigna di Leonardo, dal canto suo, oggetto di un intenso lavoro scientifico di recupero a cura della Facoltà di scienze Agrarie dell’Università di Milano, è stata vendemmiata per la prima volta nel 2018, le sue uve raccolte e fatte fermentare in una giara di terracotta interrata, secondo l’antico metodo greco-romano: ne è stato ricavato un vino eccellente, la Malvasia di Candia Aromatica o Malvasia di Milano,vitigno originario scelto da Leonardo, chissà in base a quale studio, per la sua terra. Vino geniale, non poteva naturalmente essere imbottigliato in bottiglie comuni, e infatti fu raccolto in esclusivi decanter, ispirati a uno schizzo dello stesso Leonardo. Il primo è ora conservato nel museo sotto il soffitto dipinto da Bernardino Luini, a eterna memoria dell’unione di Leonardo e Milano. Fino a qui, arte e storia appassionanti e stupefacenti.
Ma veniamo alla frase latina dipinta su un muro nel vestibolo della casa-museo. Leonardo da Vinci e Ludovico il Moro erano coetanei: il primo nacque il 15 aprile 1452 in una frazione di una frazione di Firenze; il secondo nacque pochi mesi dopo, il 3 agosto, nel centro di Milano. Ludovico era il quarto figlio maschio di Francesco Sforza e di Bianca Maria Visconti; Leonardo era figlio illegittimo del gaudente ventiseienne Piero da Vinci, notaio, figlio di notaio, e di Caterina, contadinotta che immaginiamo bella e prosperosa, di certo indegna di essere ammessa in una famiglia di rango. Non che fossero merce rara, a quel tempo – né prima né dopo –, i bambini nati dalle avventure o dalle violenze di ricchi uomini illustri nei riguardi di serve e contadine. Gli uomini in questione, spesso, non venivano neanche a conoscenza della loro “paternità responsabile”, mentre il più delle volte liquidavano signorilmente mamma e figlio con una buona uscita, se in vena di generosità. Chissà quanti sono i bambini illegittimi pieni di talenti vissuti ai margini, poveri e reietti, privi di tutti i privilegi di una paternità che spettava loro di diritto. Fa venire i brividi pensare che anche Leonardo sarebbe potuto sparire nell’anonimato di un paesino di campagna, figlio illegittimo fra tanti…
Ma stranamente – o piuttosto grazie al destino che si frappose a condurlo per mano – Leonardino, invece di restare con la mamma, fu cresciuto in campagna in casa dei nonni, ricevendo per altro un’educazione poco curata e frammentaria. A dieci anni andò a Firenze con il papà. Il papà, che per dovere di cronaca rosa, piantata in asso la mamma del genio, si sposò quattro volte, donando al suo primogenito ben sedici fra sorellastre e fratellastri, una cosa giusta la fece: mostrò all’amico Verrocchio alcuni disegni del figlioletto e l’artista, sbalordito, intuendo la potenzialità del bambino, lo accolse decenne nella sua poliedrica e affermata bottega, culla di straordinari talenti… E Leonardo divenne Leonardo perché strinse la sua manina, pollice verde compreso, nella mano esperta e forte di Verrocchio, il quale se lo coltivò con cura paterna in tutte le arti e lo introdusse alla corte di Lorenzo il Magnifico, il quale, a sua volta, lo inviò a Milano alla corte di Ludovico il Moro (quel coetaneo, nato in ben altra condizione), il quale, a sua volta…
La vita è così: per quanto fragile sia la sua origine, basta l’intuizione di qualcuno e poi basta mettersi con umiltà e fiducia alla sequela di un destino desideroso di condurre fino alle stelle chi è disposto a seguirlo.