
PURGATORIO: CANTO XVII E CANTO XXX — parte 2

PURGATORIO: CANTO XVII E CANTO XXX — parte 3
PASSI

Il contapassi del mio smartphone afferma che il giorno in cui ho camminato di più (circa diciannove chilometri) in questi ultimi anni è stato quello che ho dedicato a visitare gli scavi archeologici di Pompei. Il secondo posto è assegnato a un vagabondaggio veneziano.
Pompei: il suo fascino straordinario ma anche inquietante, prolungata lezione di morte e sulla ferocia del tempo che passa e consuma tutto; i bagliori di bellezza che al tempo hanno resistito con casuale tenacia; la nostra infantile e truculenta delusione per l’assenza sul selciato dei calchi dei corpi inceneriti che eravamo convinti avremmo potuto osservare e scavalcare lungo le vie; l’apparire sui muri di quel rosso ormai proverbiale in tutto il mondo; le grandi sculture di Igor Mitoraj, che sembravano realizzate apposta per essere collocate in quello scenario più che in ogni altro; la vertiginosa sensazione di familiarità nei luoghi di mescita corrispondenti ai nostri odierni bar, la percezione di un quotidiano, spicciolo universale umano situato sia nello spazio che nel tempo; la sorpresa davanti all’ampiezza dell’anfiteatro, raddoppiata dal trovare nelle sue gallerie una mostra fotografica relativa al celebre concerto che i Pink Floyd eseguirono e registrarono lì nell’ottobre del 1971, al centro dell’arena in mezzo a spalti rigorosamente vuoti.
Chissà quanto volte in realtà, in passato, ho compiuto un numero di passi pari o maggiore nell’arco di ventiquattr’ore. In qualche capitale europea piuttosto che su un’isola croata, per le strade di Roma o in montagna, nel Wienervald o quel giorno che a Gerusalemme non erano disponibili né mezzi pubblici né taxi ma decidemmo di visitare ugualmente l’Israel Museum. E tutto questo senza poter considerare e nemmeno ben ricordare le interminabili peregrinazioni adolescenziali quasi impermeabili alla fatica. Sono stato un ragazzo che camminava per ore e ore, sentendo il desiderio e la necessità di farlo e inoltre ritrovandomi a pensare, quasi a constatare, che camminare è una delle attività più connaturate agli esseri umani, una maniera appropriata di stare al mondo.
Vivevo accanto all’area naturale protetta del Parco delle Groane (termine che in antico dialetto lombardo significa: brughiere) e a qualche chilometro dalla splendida Villa Arconati, residenza nobiliare di campagna che per ampiezza e bellezza veniva nei secoli passati definita, grazie anche al pregevole parco e mentre il parlare comune la identificava, chissà perché, come Il Castellazzo, una piccola Versailles italiana nei pressi di Milano e mi piaceva esplorare lentamente, da solo o in compagnia, quella che avevo rinominato la mia contea. Rammento la lunga passeggiata con un amico in una sera invernale e all’uscita dalla birreria situata nella rustica corte attigua alla villa, l’apparizione improvvisa nella nebbia gelata di un albero nero, chissà come completamente bruciato, che aveva fatto immaginare al diciassettenne che ero di trovarsi nel più romantico, alla Caspar David Friedrich, degli scenari.
Sommavo miriadi di passi solitari, come un pellegrino di Santiago fuori rotta, anche quando andavo a trovare periodicamente mia nonna materna, che viveva a Catania, nella parte più alta della città, laddove questa incomincia a inerpicarsi sulle pendici dell’Etna. Dall’ultima traversa della Via Etnea, l’arteria che attraversa per quasi tre chilometri il centro storico, scendevo solitamente fino alla Villa Bellini, il giardino pubblico e da lì deviavo verso il mare e poi vagabondavo e curiosavo a seconda dell’ispirazione del momento, concedendomi soste nelle principesche, ineguagliabili pasticcerie, nelle librerie e davanti alle bancarelle di libri usati, sul disordinato e polveroso banco di una delle quali, scovai e acquistai una volta per solo tremila lire un’antologia di poesie di Dylan Thomas tradotte da Roberto Sanesi.
Adesso le mie camminate hanno per teatro soprattutto Milano, città in cui vivo da parecchi anni e che, a differenza di tanti altri, non ho desiderio di abbandonare nei fine settimana, durante i quali anzi la esploro con affezionata attenzione e godo del molto che ha da offrire. Sono diventato più vecchio, più stanco e anche un po’ più pigro e a volte occorre che mia moglie mi sproni ma poi mi bastano soltanto un paio di scarpe comode e insieme procediamo per ore. Perché mai, diretti al cinema, a teatro, a un concerto o a una mostra, privarsi della possibilità di rimirare le facciate liberty di molti palazzi, attraversare parchi, sbirciare fascinosi cortili, fare tappa al Castello o sui gradini di una chiesa, lasciarsi incuriosire da incontri o scritte sui muri? E in una città di queste dimensioni, per quanto ci si abiti da molto, è ancora possibile smarrirsi, nelle sue periferie prive di grazia e di punti di riferimento ma anche nelle sue vie antiche e silenziose a ridosso del centro e il verificarsi della seconda di queste ipotesi è quanto ci è capitato proprio qualche sera fa. Certo, se non avessimo deciso di girovagare senza una meta precisa, solo per curiosare e guardarci intorno, non avremmo compiuto una sorta di cerchio che ci ha riportati al punto di partenza, in via Torino, ma sono convinto che a distrarci abbia contribuito in modo determinante la piccola scoperta apparsa davanti ai nostri occhi dopo qualche centinaio di metri del nostro vagabondare. In una piazzetta semibuia, alla cui altra estremità si erge una pregevole e singolare palazzina liberty, ecco apparire l’interno illuminato di una cappella di mattoni rossi, rivolto incongruamente verso la strada. Ci avviciniamo e ci ritroviamo su un pavimento circolare di marmo rosa e grigio. Al centro del muro in mattoni, un ingenuo dipinto quattrocentesco: la Madonna del Grembiule, cui vengono attribuite proprietà miracolose. Come spiegano i pannelli in metallo, ci siamo imbattuti nei resti di una cappella quasi completamente distrutta dai bombardamenti aerei del 1943, adiacente alla Chiesa di Santa Maria alla Porta e a pochissima distanza da Corso Magenta. Il restauro è stato completato poco più di cinque anni fa e questo spiega in parte perché non l’avessimo mai vista.
“Vedi? Se non avessimo camminato per il piacere di farlo, non avremmo mai scoperto questo piccolo angolo di meraviglia.”