
TELESCOPIO

MAMMA, HO L’ANSIA
LA FATICA, LA LIBERTÀ, LA VITA

Il giudizio è talmente unanime da apparire retorico: le nuove generazioni, i giovani, non sanno cosa sia la fatica. Poiché l’ovvio è da sempre nemico del vero, vale la pena tornare — consapevolmente e perciò anche criticamente — sul tema. Cominciamo da un profilo critico: il difetto (questo come molti altri, ad esempio l’uso smodato del cellulare) non è un’esclusiva delle nuove generazioni, a meno che gli stenti del passato non chiedano compensazione nelle mollezze del presente. I nostri padri hanno conosciuto la guerra, ma oggi qualcosa di simile sembra toccare in sorte anche ai nostri figli: ci auguriamo che non conoscano mai gli orrori dei bombardamenti, ma sono già oggi esposti a incertezze e, in qualche misura, a privazioni. Soprattutto, nessun essere razionale può consapevolmente sostenere che per imparare la fatica bisogna farsi educare dagli orrori dei conflitti.
C’è qualcosa di più profondo nella fatica, rispetto alla virile resistenza alle intemperie della vita o alla strabiliante caparbietà del maratoneta, qualcosa che non ha a che fare con i muscoli e con i nervi. Chiunque è abituato a camminare in montagna sa bene che la fatica non si trova nelle gambe o nel respiro, ma nella mente. Sarà capitato a molti, dopo ore di ascesa logorante durante la quale ogni passo chiede uno sforzo quasi eroico, di giungere in vista del rifugio e scoprirsi capaci di percorrere gli ultimi metri quasi correndo, nonostante le gambe doloranti. È questione di distanza; più precisamente: è questione di resistere alla distanza tra le energie spese e il risultato sperato; per questo la prossimità di ciò che è atteso cancella il peso della fatica.
Nella tradizione ebraica e cristiana, la fatica è una delle conseguenze della caduta di Adamo che rende inaccessibile quel giardino dell’origine in cui la promessa della vita risplendeva, incorrotta e senza ombre. Lì l’uomo e la donna lavoravano già, coltivando e custodendo il giardino, ma della fatica non c’era traccia: ogni cosa, ogni vivente li rassicurava in ordine al compimento buono della loro libertà. Proprio come la caduta, la fatica non è questione di atti ma di quella sintesi tra azioni, sguardo e pensiero che è la coscienza umana. Sarebbe riduttivo, tuttavia, immaginare che essa sia solamente una maledizione: l’uomo sa riaprire ogni volta il discorso della vita. Quello spazio terribile, quel vuoto spaventoso tra l’esercizio della libertà e il suo risultato, non è uno spazio inutile. È, invece, il luogo in cui l’uomo si scopre all’altezza della promessa, è il luogo in cui, da semplice destinatario, egli diventa autore, protagonista, responsabile. In altre parole: in questo luogo, in questo ritrarsi della promessa e del godimento, si diventa uomini adulti.
Così è, in moltissimi suoi aspetti, la vita; ma nell’ambito dello studio e della cultura, di cui ci occupiamo con i ragazzi della Piccioletta Barca, lo è ancora di più. Imparare la grammatica e la sintassi, le tabelline e i teoremi, ma anche addestrarsi a posizionare le dita sul violino o sui tasti del pianoforte è una fatica immensa se non se ne intuisce il motivo e se non se ne vedono i frutti: sottovalutarla sarebbe ingiusto nei loro confronti. Quando un ragazzo incontra un adulto capace di ribadire il fine, capace ad esempio di spiegargli quanto la ricchezza della lingua lo aiuterà a pensare e a parlare o di ribadire che presto i suoni dallo strumento usciranno puliti e pieni, studiare diventa più semplice. Ma nessun insegnante e nessun metodo potranno mai (né mai dovranno) promettere di colmare la distanza: non si impara a suonare il pianoforte in due settimane, né l’inglese durante il sonno. Perché quello spazio, quel vuoto, quell’evanescenza della promessa di bene, è esattamente lo spazio in cui si impara a farsi personalmente carico del mondo. La responsabilità non è solo una virtù seriosa, la responsabilità è il luogo della tua risposta, del risuonare della tua voce, il luogo in cui capisci che sei all’altezza del compito e che il mondo funziona proprio perché ci sei tu. Per questo l’incapacità di fare fatica va di pari passo con l’alienazione dal mondo, con la convinzione che nulla mai cambierà, che non siamo altro se non destinatari passivi delle gioie e delle tragedie della vita. Un ragazzo che non conosce la fatica è un ragazzo che non ha mai visto il mondo, con la sua durezza e la sua resistenza, cedere all’opera della sua libertà: per questo finisce per non credere nel proprio valore. Ci vuol poco, a quel punto, per completare il quadro disastroso: basta convincerlo che il metro di giudizio sulla sua vita è il voto del tema o dell’esame, costruire su questo una retorica dell’eccellenza e avremo un perfetto sistema di privilegi, contro il quale nessuno più oserà alzare la voce. La conclusione è chiara: se vogliamo un popolo incapace di cambiare il mondo, prono alle ingiustizie del nostro tempo, comodamente disposto ad accettare tutto ciò che arriva e disinteressato al proprio stesso destino, dobbiamo costruire generazioni che non sanno fare fatica.
No, la soluzione non è una nuova guerra. La soluzione è una sapiente capacità educativa che proponga ai piccoli cammini più grandi di loro. Per noi, i grandi classici della letteratura e dell’arte, i grandi testi del pensiero, la grande musica sono esattamente questo: una cima innevata che, invece di respingerti con le sue altezze, si fa ospitale e ti invita a salire. Non importa quanto ci metterai, ma quei versi di Dante che hai imparato a memoria, invece di cercarli nella rete, quei romanzi che hai davvero letto, senza alcun bigino, quel minuetto che hai provato e riprovato non parlano di sé, ma di te e di come, se lo vorrai, potrai cambiare il mondo. Studiando hai mostrato a tutti — e innanzitutto a te stesso — che il bene non è un diritto, né una fortuna, il bene è il mirabile incontro tra il mondo e la tua faticosa libertà.
Till we are asked to rise
And then if we are true to plan
Our statures touch the skies -Emily Dickinson