
“LIBERA” DI CREDERE NEL CAMBIAMENTO

SII COME LO ZIO JOE!!!
DEMOCRAZIA E MEMORIA

Per una singolare coincidenza, nei giorni in cui gli italiani sono chiamati a esprimere il loro voto, molti cittadini e cittadine iraniani scendono in piazza, sfidando uno dei regimi più sanguinari di questo secolo. Una ragazza, dopo essere stata arrestata perché non indossava il velo, è stata uccisa dalla polizia religiosa e, come una miccia, la giovane vita recisa ha riacceso la polveriera di un popolo che, da più di quarant’anni, si trova stretto tra il maglio della Repubblica Islamica e il muro delle sanzioni occidentali.
Ho avuto la fortuna di visitare l’Iran quest’estate insieme a un gruppo di giovani studenti universitari. Siamo stati cullati e viziati da un’ospitalità esemplare, da un popolo che, al nostro passaggio, si apriva come un fiore esotico per mostrare tutta la sua bellezza. Una bellezza maturata nei secoli, che ha regalato al mondo alcune delle più grandi invenzioni della storia: una delle prime scritture alfabetiche al tempo degli Elamiti; il primo monoteismo tollerante con lo Zoroastrismo; sotto gli Achemenidi, il sogno di un impero di pace universale, capace di onorare le differenze dei suoi molti popoli.
Abbiamo mangiato e bevuto, riso e cantato insieme a decine di giovani iraniani; siamo entrati nelle loro case, abbiamo condiviso il tè nei loro parchi. Abbiamo scambiato contatti Instagram per il solo fatto di essere stranieri e decine di volte ciascuno di noi si è sentito ripetere «Welcome to my country!», un ritornello che, per tutto il viaggio, ci ha fatto sentire ospiti, più che turisti. Il calore degli iraniani, come un grande mantello che ripara dal freddo, ha permesso che non sentissimo mai, neppure per un momento, il pugno di ferro del regime: indossare il velo, per le giovani donne che erano con noi, è stato come la regola di un gioco di ruolo, a cui sottostare un po’ per scherzo, scegliendo il foulard più colorato.
In un caldo pomeriggio di agosto, sotto le arcate del ponte Khaju, in un’improvvisata sfida di canto con un gruppo di famiglie locali, noi italiani abbiamo intonato Bella ciao: non pensavamo più di tanto al suo significato politico, era semplicemente un canto tradizionale di cui tutti conoscevamo il testo. Qualche giorno fa, tra le poche informazioni che i nostri media stanno dedicando a ciò che accade in Iran, mi si è gelato il sangue guardando un video di una ragazza che, per dar voce alla protesta, intonava versi in farsi sulla melodia del nostro canto partigiano.
Si può dissertare a lungo sulla crisi delle democrazie occidentali, sulla perdita di credibilità dei politici e dei partiti, sull’ormai cronico astensionismo dei cittadini europei. Non c’è dubbio che, nel grande mondo degli uomini, il nostro modello di libertà non debba e non possa essere l’unico e che non ci siano ragioni per esportarlo, soprattutto con le armi. L’Europa non è l’Eldorado:siamo pieni di contraddizioni e di ingiustizie, di disparità economiche e di fragilità. Ma siamo anche stati la patria di Kant e di Rousseau, di Silvio Pellico e di Altiero Spinelli; il fatto che qualcuno, cercando libertà, intoni i nostri canti, non va preso alla leggera e non va confuso con i miraggi di benessere di un Occidente opulento e distratto. Per me, il risuonare di questo canto, è l’invito a non rassegnarmi troppo presto alla crisi delle democrazie e a non abbandonarmi alla disillusione nei confronti del sogno europeo.
Quando io penso all’Iran, sogno Ciro il Grande, quel cilindro da lui redatto nel VI secolo a.C., che è da molti considerato la più antica carta dei diritti umani e una cui copia è conservata nel palazzo dell’ONU a New York. E sono felice di sapere che un amico iraniano, pensando all’Europa, sogna i nostri ideali di libertà, uguaglianza e fraternità o la democrazia ateniese.
Allo stesso modo, mi piace credere che ragazzi che scendono in piazza oggi a Teheran o a Isfahan, rischiando il carcere e la vita, stiano portando il testimone di quel desiderio di pluralismo e tolleranza che è sgorgato dal cuore dell’antica Persia e la cui vena preziosa non è ancora esaurita; mi piace credere che i nostri diciottenni che hanno votato per la prima volta in questi giorni abbiano realizzato ciò che i nostri padri costituenti hanno incominciato a sognare, mentre ancora un regime violento stringeva nella sua morsa buona parte del nostro Paese.
Walter Benjamin ci ha spiegato che fare storia non significa mettere in luce ciò che è accaduto nel passato, ma ciò che, delle promesse del passato, ancora non è accaduto: fare memoria significa liberare, dalla storia, una potenza che, senza di noi, rimane semplicemente dormiente. Questo noi cerchiamo di insegnare ai ragazzi della Piccioletta Barca, che saranno presto elettori e che dovranno affrontare con coraggio sfide più grandi di loro. Se lo vorranno, potranno attingere a un tesoro di pensieri, visioni e sogni; avranno la fortuna di poterlo cercare tra le tavolette babilonesi, i papiri egiziani, i marmi greci, le carte di Silvio Pellico e gli spartiti di Verdi. Ma toccherà a loro decidere cosa, di questo tesoro, potrà realizzarsi.