
LE STELLE DI MILANO

C’ERA UNA VOLTA LA SCUOLA MEDIA — capitolo 5
MARMOLADICEA

Un torrido giorno d’estate, la Regina delle Dolomiti è stata violentemente strappata dal suo trono fatto di roccia e di morene; il manto di nevi perenni, lacerato, lasciava intravedere le spalle nude della sovrana e l’algida tiara di ghiaccio, davanti alla quale si inchinavano, ossequiosi, persino i forti venti delle bufere di montagna, è stata calpestata ed esposta al pubblico ludibrio. L’accusa mossa dalla folla inferocita alla Marmolada, attonita davanti a tanta indignazione, era di aver causato la morte di diverse persone, innocue formicole, che si stavano inerpicando sulle sue pendici, il giorno 3 luglio 2022.
La Regina è stata poi incatenata e trascinata in tribunale, per essere sottoposta a regolare processo. Ammanettati, alle sue spalle, protestavano a gran voce alpinisti, guide alpine e valligiani, mentre in disparte sedeva la terribile e famigerata banda dei cambiamenti climatici, micidiali tagliagole, noti tanto per la loro efferatezza quanto per il loro modo silenzioso e discreto, grazie al quale riescono quasi sempre a sfuggire alla presa della giustizia. Il banco degli imputati era quindi composto da una moltitudine di soggetti in dissonante contrasto tra loro. In quanto a dissonanza, però, nulla poteva superare il miscuglio di urla e versi provenienti dallo spazio riservato al pubblico: una folla di impressionante eterogeneità, che pareva, comunque, aver poco a che fare con la vicenda e il mondo della montagna in generale, scuoteva con forza le sbarre del cancelletto del tribunale, come una schiera di fiere in gabbia, ora insultando questo, ora accusando quello, prima commiserando uno, poi deridendo gli altri…
Come spesso accade in queste circostanze, l’eco del processo è svanita nel giro di pochi giorni, giusto il tempo di permettere alla massa di scaricare la propria indignazione su qualche altra causa nuova e quindi più interessante. È rimasto sospeso, come un’immensa nube di fumo, solo il sordo dolore dei famigliari e degli amici delle vittime, dolore destinato a essere lenito dal passare del tempo, ma a durare per sempre. L’aula, come dicevo, era ormai vuota, quando una giuria composta da esperti e scienziati ha effettivamente indicato i cambiamenti climatici come i principali responsabili di un evento catastrofico che si poteva temere, certo, ma non prevedere, anche perché mai verificatosi prima in quella zona. La Marmolada, dunque, assolta, è potuta ritornare sul suo trono, silenziosamente e in un clima di generale mestizia; l’espressione di serena austerità, da fiera e saggia regnante, ha lasciato posto uno sguardo afflitto e portatore di un certo senso di deturpazione.
In qualità di appassionato alpinista e di giovane uomo, allevato e istruito dalle Dolomiti e dalle loro valli, sento, dunque, il dovere di spendere alcune parole, a distanza di pochi mesi dall’accaduto, in un’ulteriore difesa della mia regina, impegnandomi in questa breve Marmoladicea. Non mi interessa fornire una ricostruzione scientifica di quanto accaduto, analisi di questo tipo sono ormai facilmente reperibili; desidero solo concentrarmi su due punti fondamentali, il ruolo del mondo mediatico e la reazione della popolazione dinanzi al fatto.
È molto interessante notare, innanzitutto, come la montagna, al giorno d’oggi, riesca a trovare spazio sulle pagine di quotidiani e di periodici non specializzati, o tra le notizie dei telegiornali, solo in occasione del verificarsi di grandi disgrazie. Non era così nel secolo scorso, quando eventi dall’esito negativo o positivo, si affermavano dinanzi all’opinione pubblica. Basti pensare, per esempio, al seguito che ebbero i tentativi di salita della famigerata parete Nord dell’Eiger, l’orco dell’Oberland bernese, la quale mieté, inesorabile, vittime tra i più promettenti alpinisti austriaci e tedeschi degli anni Trenta del secolo scorso. Quando, però, la Nordwand venne finalmente vinta, i quattro alpinisti protagonisti dell’ascensione furono celebrati, sui giornali di allora, come eroi nazionali. O ancora, per citare un episodio avvenuto in Italia, si ricordi il notevole impatto mediatico che ebbe la salita della parete nord del Cervino da parte di Walter Bonatti nell’inverno del 1965, impresa coronata da successo e non per questo passata in secondo piano. Mi si potrebbe obiettare che la considerazione dei tentativi alla parete nord dell’Eiger era inscritta in un più vasto programma di esaltazione, di stampo prettamente nazionalistico, dei valori e delle caratteristiche del perfetto giovane nazista; o, ancora, che l’attenzione rivolta all’impresa di Bonatti non fosse altro che il culmine di un processo di progressivo interessamento a un personaggio ormai pubblico. Comunque sia, mi sembra innegabile che il secolo scorso fosse animato da una concezione profondamente diversa della montagna e dell’alpinismo, forse frutto degli strascichi degli ideali romantici di purezza, onestà e frugalità, propri del mondo montano. Tali ideali trovarono un solido baluardo nella collocazione alpina di alcuni fronti del primo conflitto mondiale e della letteratura da questa discendente: penso che l’opera di Piero Jahier, Con me e con gli alpini, possa, ad esempio, costituire un valido fondamento per questa teoria.
Oggi, invece, a parte qualche intervento dell’arcinoto Reinhold Messner (interventi talvolta infelici – ricordo l’importante gaffe proprio a proposito dell’incidente sulla Marmolada, dovuta alla pubblicazione dell’immagine di un laghetto sul ghiacciaio risalente al 2009 e presentata come scattata nel 2022) e di alcuni pseudo divulgatori-alpinisti, merce da sponsor e inserzioni pubblicitarie, noti più per la loro oratoria che per il loro curriculum di ascensioni, la stampa tace qualsiasi avvenimento alpinistico, per poi scatenarsi, improvvisamente, in occasioni di grandi disgrazie come quella avvenuta sulla Marmolada. In queste vere e proprie eruzioni vulcaniche, della durata massima di qualche giorno, scorre copioso il magma della superficialità mentre vengono scagliati, in ogni direzione, lapilli di ignoranza e disinformazione. Nelle prime ricostruzioni dell’incidente fornite dalla stampa si parlava di diversi escursionisti o alpinisti (o pellegrini? carovanieri? passeggiatrici, magari) travolti da una valanga o da un seracco (sulla Marmolada, seracchi, difficilmente reperibili) e ci si domandava, addirittura, perché non venisse emanato un bollettino di rischio di cedimento di strutture glaciali, vista l’esistenza di un bollettino dedicato al pericolo delle valanghe, dando per ovvio un nesso fra i due fenomeni che invece non esiste. Non mi soffermerò, certo, su considerazioni circa il generale stato di profonda malattia dell’intero sistema di informazione (che richiederebbe una digressione troppo corposa), manifestato dalla presenza di sintomi evidenti come quelli sopra descritti, ma mi domando perché, in un’epoca dominata da un’estrema specializzazione di conoscenze e di mansioni lavorative, non sia possibile rinvenire una voce che tratti questi eventi con profonda cognizione di causa, senza dover sovraccaricare il sistema comunicativo di una sequela di notizie inutili e, soprattutto, errate.
Il secondo grande tema su cui desidero soffermarmi è il variegato mondo delle reazioni umane dinanzi agli incidenti in montagna: da un atteggiamento di silenzioso e rispettoso raccoglimento fino a un immotivato, e spesso anche infondato, accanimento contro le vittime. Occorre, innanzitutto, dire che l’alpinismo è, e sempre sarà, un qualcosa di sostanzialmente incompreso e incomprensibile. Proprio per questo, a mio avviso, la “conquista dell’inutile”, di cui ci parla Lionel Terray, trova spazio fra le più affascinanti attività dell’uomo: è peculiarità prettamente umana l’agire fine a se stesso, senza alcun obiettivo funzionale o utilitaristico. È quello che distingue l’essere umano dal resto degli animali. I più non potranno mai concepire l’esposizione a rischi particolari e oggettivi, all’imprevedibilità di elementi che sfuggono al controllo, in un ambiente che pare voler respingere qualsiasi forma di vita. L’ossessione per il controllo e l’illusione del controllo popolano le nostre vite di abitanti del mondo occidentale in modo sempre più pervasivo e neppure gli ultimi anni di pandemia, in cui ciascuno ha sperimentato personalmente la perdita di presa sul regolare andamento della propria vita, sembrano aver lasciato traccia in questo senso. L’illusione permane, forse ancora più accentuata. Così, dunque, l’uomo contemporaneo continua a brandire fiducioso la ruota del timone della propria vita, senza sapere che la pala del timone, sott’acqua, staccata da ogni meccanismo, viene indirizzata solo dalle correnti marine; e s’indigna profondamente, com’è giusto, quando vede uno scriteriato qualunque varcare il limite della sicurezza ed esporsi alla cecità della sorte; e lo insulta accuratamente, com’è logico, perché offeso nel suo auto-percepirsi preciso e attento, mentre la sua imbarcazione, nel frattempo, sta per frantumarsi contro un banco di scogli. Occorre tenere presente che il rischio comportato dall’attività alpinistica non è mai azzerabile: al di sopra di una fitta schiera di accorgimenti, volti a minimizzare il rischio, pendono implacabili pericoli oggettivi, pronti ad abbattersi su ignari malcapitati. È forse proprio questo il caso delle vittime della Marmolada, espostesi, certo, a una situazione di potenziale pericolo – accentuato da condizioni glaciologiche decisamente inusuali e che avrebbero dovuto, dunque, metterle in un maggiore stato d’allerta – ma soverchiate dalla potenza e dall’imprevedibilità di un evento mai verificatosi prima. Se a crollare fosse stato un seracco, come avevano inizialmente comunicato i media, si sarebbe potuto rinvenire un grave errore nella pianificazione del percorso: è buona norma evitare di avvicinarsi a qualsiasi struttura, sia essa composta di neve, di ghiaccio (come il seracco) o di roccia, caratterizzata da evidente instabilità e propensione al cedimento. Ma mai, prima, un’intera porzione di ghiacciaio era slittata sul suo basamento per poi infrangersi verso valle. Ogni sedicente esperto di ghiacciai e alpinismo, dal momento dell’inciente, si è speso in un’infinità di ammonimenti e rimproveri, diretti in gran parte alle comunità locali, caratterizzate, a suo avviso, da una sapienza rozza e troppo antica e quindi da destinare a un’accurata istruzione circa i meccanismi che regolano il loro ambiente. Se esiste qualcuno che conosce veramente la montagna in ogni suo aspetto, questi non può che essere il suo abitante abituale, il quale, per continua impregnazione e grazie a un’eredità tradizionale, conosce profondamente e in ogni sua parte il mondo che lo circonda. Ci troviamo dinanzi a sfide climatiche di portata globale che, storicamente, come genere umano, non abbiamo mai dovuto affrontare, ma respingo con decisione l’idea che uno sguardo sapiente proprio perché radicato in una tradizione secolare possa essere cieco dinanzi ai problemi della contemporaneità. Accanto alla gente di montagna, gli unici a disporre di diritto di parola, in questo tipo di occasioni, sono i soccorritori alpini, che si espongono, effettuando le operazioni di salvataggio, a reale pericolo di morte e, per questo, possono esprimersi sulle scelte degli alpinisti. Si parla ormai da anni, per diminuire il numero in costante crescita degli interventi di soccorso, di limitare o, addirittura, interdire l’accesso a determinate vie di salita o a intere montagne: credo non vi sia nulla di più insensato, dal momento che la maggior parte degli incidenti è causata dall’eccessiva facilità con cui chiunque può ormai raggiungere luoghi per lui proibitivi, non disponendo di adeguata istruzione, educazione ed esperienza. Basti pensare alla sempre maggior diffusione di impianti, specie nelle Alpi occidentali, che prelevano grandi masse di persone a fondovalle per proiettarle, in una manciata di minuti, ad alta quota. Limitare l’accesso alla montagna è un provvedimento che riguarda gli effetti di un errore umano, non la causa, e agire sugli effetti non ha mai condotto a soluzioni concrete.
Ebbene, mia Regina, spero di aver ricordato che se ci sono stati errori o colpe, in tutta la vicenda, questi sono solo dell’uomo, forse, in parte, delle vittime stesse, certamente dell’umanità tutta. Il tuo nome è stato fin troppo vanamente impiegato per spargere, ancora una volta, sterili sementi di timore, angoscia e dolore. Che tu possa tornare a sedere nella vastità del tuo trono, in pace, lontana dai riflettori e dalle domande inopportune e, ti prego, ricorda, con un comprensivo sorriso, chi rimarrà per sempre parte della tua immensità.