
MARMOLADICEA

NON BASTA MAI!
C’ERA UNA VOLTA LA SCUOLA MEDIA — capitolo 5

Terminata la scuola media in modo poco onorevole nell’autunno del 1961 – avevo dovuto sostenere l’esame di riparazione di matematica – e trascorsi dieci anni, mi presentai con la nomina di insegnante di Lettere presso la scuola media Bonvesin De La Riva a Legnano: era il mese di ottobre del 1971. Erano trascorsi dieci anni, io non ne avevo più quattordici, ma quasi ventiquattro, e nel frattempo il mondo attorno a me era cambiato, in particolare avevo vissuto il Sessantotto, oggi ricordo solo degli anziani, che aveva trasformato l’intera società e, in modo particolare, la scuola.
Con la mia nomina in tasca, mi presento al Signor Preside – che nel frattempo si era trasformato semplicemente in Preside – che mi guarda con occhi preoccupati, meravigliandosi della mia giovane età e, forse, del mio look: jeans e maglioncino con il collo a “lupetto”, acquistato alla fiera di Senigallia, tipico luogo in cui molti giovani della mia generazione compravano questi capi d’abbigliamento. Con sguardo ansioso, il Preside mi accompagna all’ingresso di una delle classi in cui avrei dovuto insegnare: la terza C. Al suo ingresso, i ragazzi, tutti maschi, scattano sull’attenti e non si sente volare una mosca; il Preside mi presenta e raccomanda loro con parole di fuoco di essere rispettosi, di dimostrare la loro buona educazione e, soprattutto, di non comportarsi come era accaduto pochi giorni prima con un’insegnante che aveva subito chiesto di essere trasferita altrove. Detto questo, il Preside mi saluta, mi augura buon lavoro e si allontana. La porta della classe viene chiusa e io mi siedo “dietro” la cattedra, per la prima volta non sono più “davanti” alla cattedra!
Passano trenta secondi e la classe si trasforma in una bolgia dantesca: Carlo Rossi salta sul proprio banco e, fingendo di aver fra le braccia una chitarra, inizia a urlare una canzone; Vincenzo Garofalo allontana la sedia dal banco e si sdraia mettendo i piedi su quest’ultimo, Franco Pierotti incomincia a “scazzottare” Paolo Lamperti. In un minuto tutta la classe è in movimento e fermento, la guardo e mi rendo conto che sono venticinque ragazzi, alcuni dei quali tredicenni, altri decisamente più grandi, sicuramente molto più alti di me e con l’aspetto di studenti più adulti. Ovvio, nei primi anni ’70 si bocciava, sia alle elementari, sia alle medie e di conseguenza in III media uno studente poteva avere 15 o 16 anni.
Mentre mi domando come poter domare la classe, si avvicina Cesare Monticelli, un ragazzo tarchiato, con la fronte bassa e un ghigno poco adatto in una classe di scuola media. Mi guarda e dice: “Puttana!”. Smetto di pensare e, con la rabbia dei miei quasi ventiquattro anni, mi alzo, lascio la cattedra, lo raggiugo e lo colpisco con un potente calcio nel sedere. È un calcio miracoloso: non solo la vittima rimane sbalordita, ma l’intera classe si paralizza e rimane in silenzio. In quel momento pronuncio parole che non ho scordato, anche se sono trascorsi più di cinquant’anni: “Va bene, ragazzo, adesso, se vuoi, va’ dal Preside e di’ che la tua professoressa di Lettere ti ha dato un calcio nel sedere. Terminata l’ora di lezione, io andrò a riferire il motivo per cui te l’ho dato”. Silenzio generale, allora riprendo, rivolgendomi alla classe: “Vedo che avete sul banco il libro di Grammatica italiana, facciamo subito una piccola prova. Prendete un foglio, vi detterò tre frasi e voglio che ne facciate l’analisi grammaticale, logica e del periodo. In alto scrivete nome e cognome, li ritirerò e riconsegnerò corretti e con un voto”.
Cesare Monticelli non andò dal Preside, io neppure, ma avevo stabilito chi era l’autorità nella classe.
Ho raccontato il mio primo incontro come insegnante nella scuola media, ma non ho detto nulla del decennio intercorso. Durante gli anni universitari, ho insegnato Religione nella scuola elementare del mio quartiere – Bovisa – un quartiere operaio con alte ciminiere, in cui avevano sede fabbriche come la Montecatini, Sirio, Carlo Erba, Face Standard, Ceretti e Tanfani, Branca, Livellara. Alle 17.30 suonava una sirena che segnalava la fine della giornata lavorativa e per un quarto d’ora le strade si riempivano di operai a piedi o in bicicletta, diretti alle loro case. Durante la seconda metà degli anni ’60 ho vissuto molto tempo fra gli alunni della scuola elementare, ho visto le difficoltà dei bambini delle famiglie più disagiate, in particolare ho incontrato i piccoli che arrivavano dal Sud. In quel contesto credo di aver imparato a insegnare, perché per insegnare è necessario guardare la realtà in cui i ragazzi vivono, conoscere le loro famiglie, stare con loro, intuire almeno in parte la loro storia, non scandalizzarsi di niente, capire i messaggi che silenziosamente desiderano comunicarti e, soprattutto, bisogna amare la singola persona, unica e irripetibile. Molti bambini che ho conosciuto alle elementari li ho ritrovati pochi anni dopo alla scuola media, quando ho ottenuto il trasferimento vicino a casa. Ma di questo parlerò nella prossima puntata…