
NON BASTA MAI!

NEL MERITO DEL MERITO
COS’È LA CULTURA?

Sarebbe ingenuo costruire un centro di cultura senza chiedersi sempre da capo, insieme ai ragazzi, cosa sia la cultura. Interrogato in proposito, un nostro piccolo socio di quarta elementare, egiziano, risponde che la cultura è «come quella degli egizi, che hanno costruito le piramidi, che ci sono ancora»; individua immediatamente, così, almeno quattro elementi: un’identità, un’opera, una storia e il fatto che tutto ciò lo riguarda da vicino. Egli intuisce che le grandi opere dell’uomo non provengono dal genio personale, ma da un soggetto plurale, che pure si esprime nella responsabilità dei singoli. Intuisce anche che non solo la tecnologia, ma un complesso intrico di sapienze e di saperi rende possibili la crescita di questo soggetto. Suggerisce, poi, che la cultura ha a che fare con il tempo, ma non solo con il passato, bensì con le permanenze del passato nell’oggi e con le proiezioni dell’oggi nel futuro. Ma, soprattutto, intesse un primo filo tra la cultura e la sua vita di ragazzo, la sua storia, l’eredità dei suoi padri.
Certo, come ricorda Socrate, è semplice comprendere gli effetti di una cosa, più complesso è definire la sua essenza. Provandoci, un altro azzarda: «la cultura è l’insieme delle cose che si sanno»; non possiamo accontentarci: cultura non è erudizione. La precisazione arriva subito da un socio più grande: «le cose che si sanno, sì, ma mischiate con il proprio pensiero».
Viene, dunque, in aiuto l’etimologia: cultura ha un’intonazione agricola; coltivare un campo, custodire un affetto, essere devoti verso gli dei hanno lo stesso suono, colere. Richiama a una cura paziente, protratta nel tempo, capace di comprendere gesti e competenze molto diversi l’uno dall’altro: l’aratura, la semina, l’irrigazione, il raccolto, la potatura…
L’origine sanscrita della parola (c’al-ayami), pare richiami in particolare il gesto dell’aratura, del vomere che viene portato in avanti e spinto in profondità. La cura, allora, si compie in quel solco che la lama lascia nel suolo, rovesciandolo. Questi solchi irregolari somigliano alla grafia vergata su un foglio bianco: la prima scrittura umana è nel corpo della terra. Ci ricordano che non si fa cultura senza accogliere la responsabilità di modificare il mondo, affinché generi vita. Da questo inizio alle piramidi, che, modificando l’orizzonte, portano la scrittura nel corpo del cielo, il passo è breve.
Non fa cultura, allora, la parola effimera; poco importa che si tratti di un discorso da salotto, del pavoneggiarsi dell’intellettuale, o dell’ultimo social media di turno. Migliaia o milioni di visualizzazioni non contano, qui: sono segni di cui non resterà memoria alcuna e la cui scomparsa nessuno rimpiangerà. D’altra parte, la fatica del contadino e lo sforzo dei costruttori, sarebbero già sufficienti a meritare alle loro opere una sopravvivenza che l’opinione, troppo facile, non merita.
Proprio questo processo di sopravvivenza, tuttavia, mostra come i protagonisti della cultura non siano mai solamente gli autori. C’è cultura quando, attorno all’opera, si raccoglie la cura di tutti: dei primi destinatari, di chi ne conserva il ricordo, di chi tramanda il contenuto e degli ultimi fruitori. Un classico, al di là della retorica, è per sempre proprio perché qualcuno lo custodisce, approfondendo il solco. I monaci che, nell’alto medioevo, con grande sacrificio di pecore, hanno copiato su pergamena i classici greci e latini, hanno consegnato agli studiosi rinascimentali un tesoro a loro talvolta oscuro, permettendone lo svelamento. E noi stessi, consegnando ai ragazzi testi, autori e pensieri, speriamo che ne diventino protagonisti, faticando e sporcandosi le mani nella terra della cultura. Cultura, come scrittura, porta in sé anche un altro segreto: quello della sua desinenza, che esprime il participio futuro, scomparso in italiano ma ben presente nella lingua latina. Anche il verbo essere ha questa forma: futuro. È il tema dell’Accademia di questo nuovo anno.