
DESIGN: OSSERVARE IL MONDO

VIVERE PIENAMENTE NEL MONDO, MA DISTACCATI DAL MONDO
NON BASTA MAI…RELOADED

Nei giorni successivi al Natale, ancora un po’ stupito che per il secondo anno di seguito, terminati gli anni del Covid, la vita me ne conceda il lusso, mi ritrovo a pianificare un breve viaggio in Italia centrale: un paio di giorni in Umbria, una delle regioni più affascinanti d’Italia (ma difficile trovarne una che non lo sia). Amo l’Umbria sin dal primo incontro, chissà quanti anni fa: l’Umbria dalle città che sorgono dalle sue colline, l’Umbria degli eremiti e dei santi, del lago Trasimeno, l’Umbria di Perugia, aggrappata su un’onda di tufo, città universitaria dal 1309.
Parto da Milano un po’ inconsapevole del lungo viaggio che mi aspetta, tra pioggia, lavori in corso e automobilisti poco scattanti. Pazienza: ho pianificato di passare la notte a pochi chilometri da Assisi e già pregusto un giro notturno per la città e una buona cena. Sono stato più volte ad Assisi, soprattutto in bassa stagione, e mi attendo che mi riproponga la sua magia. Le vie silenziose (quelle periferiche sempre, mentre per le principali basta attendere che si plachi il turismo religioso quotidiano), la pietra chiara delle sue case (nessuna fuori posto, nessuna deturpata dall’edilizia anni ’60) illuminate dalla luce calda dei lampioni, i passaggi stretti in salita, il castello che domina e, ovviamente, i luoghi francescani.
Già l’avvicinamento in auto preannuncia qualcosa di inaspettato: luci blu, rosse e verdi la avvolgono, come se vi fosse atterrata un’astronave; penso a quella che plana sulla Devil’s Tower del Wyoming, in Incontri ravvicinati del terzo tipo — un film che, da cinquantenne, associo ai miei primi viaggi con la famiglia in Italia centrale. Non me ne preoccupo più di tanto, è comunque tardi per i ripensamenti e lo stomaco reclama i suoi diritti. Parcheggio, pago il ticket e mi addentro nella città.
Che non c’è più.
Assisi non è più quell’intrico di vicoli stretti che ricordavo aprirsi in piazzette di squisita eleganza medievale: per l’occasione è diventata un multisala. Le piazze sono platee, le facciate (S. Rufino, il Palazzo comunale, San Pietro, Santa Chiara, persino la Basilica di San Francesco) sono giganteschi schermi su cui, chissà da dove, vengono proiettati, immensi, alcuni dettagli degli affreschi di Giotto sull’infanzia di Gesù, quelli custoditi nella Basilica Inferiore. Curioso, penso: Giotto è nato a Vicchio, un paesino nel Mugello a pochi chilometri da Barbiana, quel grumo di case in cui, grazie a Lorenzo Milani, per alcuni anni si è sviluppata una delle esperienze educative italiane più importanti del Novecento.
Non so da quanto tempo (giorni? Mesi?) duri lo spettacolo, né per quanto tempo durerà. Sta di fatto che le architetture principali sono svanite: letteralmente, non si vedono più. Ho fatto cinquecento chilometri in mezzo alla pioggia e qualcuno (la Proloco? Il Sindaco? I Francescani?), per onorare lo sforzo mio e di tutti i turisti, ci ha apparecchiato una città-schermo e ci coccola con immense foto digitali, le stesse che io userei per preparare un PowerPoint ai nostri ragazzi. Non basta: invisibili amplificatori diffondono per l’intera città i canti natalizi; nemmeno un angolo si salva, nemmeno un anfratto. Già: «non basta mai», come scriveva Beatrice Gatteschi su questo blog, pochi mesi fa. Adeste fideles in filodiffusione, ovunque. Assisi, città-presepe — onnipresente logo — è il nome dell’iniziativa.
Non posso fare a meno di domandarmi quale strano meccanismo, quale avvitamento su di sé debba aver fatto l’uomo contemporaneo per organizzare a se stesso una simile trappola, non priva di ironia: un’esperienza immersiva nel virtuale che rende definitivamente inaccessibile l’immersione nel reale. Temo anche che ci sia della buona fede (e la cosa non mi tranquillizza affatto): il turista viene accompagnato, coccolato, come un bambino a cui si devono dire cosa facili (quello è Gesù, quella è Maria, quelli sono i Magi…) con linguaggio accattivante (alta definizione, morphing, suoni e luci). Giotto, ovviamente, che di Cimabue qualcuno potrebbe obiettare: «Cima… che?».
Giotto: Vicchio e Barbiana, dove Lorenzo Milani parlava di costituzione e di politica a sei cuccioli, figli di contadini, sono lontani anni luce.
Mi riprendo a malapena affogando i miei dilemmi in un calice di Sagrantino. Domani è un altro giorno.
Oggi, infatti, nella mia tabella di marcia c’è Perugia: mezza giornata soltanto, prima del lungo ritorno. La fedele guida Touring, che risale ai miei primi viaggi (vecchia come il film suddetto, con cui Spielberg guadagnò la sua prima nomination agli Oscar) segnala lungo la strada un luogo di cui — ignoranza mia — ignoravo l’esistenza: l’Ipogeo dei Volumni. Programmo una breve sosta, in fondo un po’ di tempo c’è. Si fatica a trovarlo, l’ipogeo: è nella periferia industriale della città, uguale a tutte le altre: centri commerciali, svincoli di superstrade e capannoni per la logistica; i rari cartelli (gialli, anni Ottanta) sembrano portare nel nulla, fino a un parcheggio piuttosto fatiscente. Ancora qualche insegna nascosta e mi trovo davanti a un ingresso che non lascia trapelare nulla. L’accesso costa tre euro, poco più del biglietto della metropolitana milanese, che è appena aumentato: mi convinco che inizierò la giornata con una visita minore.
E invece no. La necropoli dei Volumni è un ambiente magico e la raccolta di reperti è formidabile; non ha nulla da invidiare alle collezioni di Villa Giulia e di Volterra, solo che nessuno sembra saperlo. Non ho mai visto nulla di simile alla camera sepolcrale di Arunte e di Lars Volumnio, scavata nel tufo con la forma di una domus romana, con sei stanze attorno all’atrio principale. Nel lapidario, al termine dell’area di scavo (come spesso accade, solo una minima parte della necropoli è stata riportata alla luce), tra centinaia di oggetti, alcune urne hanno conservato ancora i colori originali; una di queste raffigura l’ultimo congedo in un tenero bacio che le due figure di pietra si scambiano, appoggiate mollemente sull’urna, facendone da coperchio. Se questo non bastasse, i custodi dell’ipogeo sono giovani archeologi, preparatissimi, che svelano i segreti delle famiglie etrusche come se ne fossero gli ultimi discendenti. Ai Volumni dedico l’intera mattinata, la Perugia epigea, in fondo, può aspettare.
Nessuno mi toglie dalla testa, però, che ci sia qualcosa di sinistro in tutto questo. Sono sempre stato abituato, fin da piccolo, a riconoscere le disuguaglianze nel legame sociale, in cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Poi, un giorno, ho scoperto il grande progetto di Barbiana: che la culturasia destinata a combattere queste ingiustizie. Ma non avevo mai pensato che si potessero discriminare le opere d’arte. Con cosa continueremo la battaglia di Lorenzo Milani se la stessa disparità colpisce anche la cultura? Come sostenere la giustizia se qualcuno ha decretato che esistono opere di serie A e di serie B, mentre altre sono fuori campionato? Non è un caso: c’è qualcosa di metodico, pervicace e sistematico nel modo in cui il marketing promuove alcuni e affossa altri. Ad Assisi, già famosa in tutto il mondo, una bulimia di suoni e luci; per la necropoli, tutta ancora da scoprire, quattro cartelli arrugginiti. Non so dire se il francescanesimo sia più importante, per la storia dell’umanità, della civiltà etrusca. Ma sono invece certo che San Francesco non avrebbe voluto esserlo.
In Piccioletta Barca, ai nostri ragazzi, abbiamo augurato buon 2023 con una frase che Beatrice ha trovato in un romanzo di Bruce Marshall: «L’unica via di salvezza per l’umanità è fare le cose difficili invece di quelle facili, dire la verità invece delle bugie, sudare invece di stare con le mani in mano, andare a piedi invece che in carrozza». Da qualche giorno l’augurio è diventato un cartello, che campeggia coraggiosamente su una delle nostre pareti.