
UTOPIA: LA GIUSTIZIA E’ LOTTA ALL’INDIFFERENZA

“SE VA AVANTI COSì…”: DALL’UTOPIA ALLA DISTOPIA
LE PAROLE SONO IMPORTANTI

«Le parola sono importanti! — gridava un indimenticabile Nanni Moretti nel film Palombella Rossa (1989) — chi parla male pensa male!». So che, di fronte alla tragedia avvenuta sulle coste della Calabria, di fronte allo spreco delle vite, di fronte alle famiglie distrutte, può sembrare irrispettoso riflettere sulle parole; ma i nostri ragazzi (e noi stessi) non possono fare a meno di un racconto, per stare nella realtà. E poi, siamo onesti, anche chi dice «ci vogliono i fatti, non le parole», sta solamente pronunciando parole. Gli unici che davvero oppongono i fatti alle parole sono le donne e gli uomini dei soccorsi, quando ci sono. Vorrei allora fare una pausa di riflessione sulle parole che abbiamo ascoltato in questi giorni, in particolare da parte di alcuni uomini delle istituzioni. Non posso non chiedermi, al contempo, quali parole noi stessi avremmo preferito ascoltare.
Le parole dimenticate. Alcune parole, in questi giorni, sarebbero state lì pronte all’uso, ma sono state dimenticate. Per esempio: alcuni dei naufraghi che si sono salvati provenivano dall’Iran, dove una dittatura violenta e feroce sta uccidendo i suoi oppositori, ragazze e ragazze di sedici anni o poco più. Le parole della protesta, in Iran, sono «donna, vita, libertà»: tutti dovremmo saperlo, lo sanno bene i nostri ragazzi che qualche settimana fa hanno incontrato una giovane iraniana che ha raccontato loro cosa sta succedendo nel loro paese. Alcune voci si sono alzate, in questi giorni, per sostenere l’irresponsabilità di un viaggio così pericoloso; dove è finito il supporto accorato bi-partisan ai manifestanti iraniani? Dove sono gli uomini e le donne delle istituzioni che ripetevano, postavano, gridavano «donna, vita, libertà»? E ancora: la maggior parte delle vittime (54 su 71) provenivano dall’Afghanistan, quel paese in cui, un due anni e mezzo fa, sono tornati al potere i Talebani. Il 15 agosto 2021 assistevamo inorriditi alla scena di madri coraggiose che passavano oltre il filo spinato i loro figli in fasce ai soldati americani, sapendo che non li avrebbero più rivisti; abbiamo visto cittadini afghani appendersi ai carrelli degli aerei in decollo da Kabul. Tutti, nessuno escluso, abbiamo speso parole di orrore e di maledizione nei confronti del nuovo regime; moltissimi hanno criticato la ritirata strategica degli Stati Uniti. Come possono, oggi, rappresentanti del mondo politico e delle istituzioni, stupirsi del fatto che alcuni cittadini afghani affrontano un mare agitato? Dove sono finite le analisi politiche di due anni fa, dove le parole di solidarietà, di indignazione?
Altre parole dimenticate. Stupisce che uomini e donne che si ritengono difensori della tradizione europea dimentichino altre parole, ancora più antiche, fondamentali e universali. Per esempio, si dimentica che Ulisse approda all’isola dei Feaci da naufrago; lì viene rivestito, accolto, portato al banchetto come un principe. Da esule accolto, da profugo ospitato, incomincia il suo racconto:l’Odissea, uno dei testi più importanti della cultura occidentale. Noi ne raccontiamo le gesta a scuola, ai nostri figli, insegniamo loro a commuoversi del coraggio dell’eroe che sfida la sorte e che, pur sapendo di avere gli dei avversi, si mette per mare con il suo prezioso bagaglio di avventure. Tornerà a casa, Odisseo, non senza aver lasciato ai suoi ospiti il più bel racconto che mai sia stato scritto. Chi, poi, si definisce fieramente cristiano, avrebbe forse potuto attingere alla Scrittura, per esempio alla lettera agli Ebrei: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Eb 13,2). Se non serve a interpretare il presente, l’enorme bagaglio di cultura che l’Europa ha a sua disposizione è solo un orpello bizzarro, un gingillo da esibire, un candeliere da salotto.
Le parole dette. Non voglio tornare su alcune delle parole più orribili che abbiamo ascoltato in questi giorni. Non voglio, perché le parole orribili sono pericolose e forse non dovrebbero essere ripetute, nemmeno per criticarle. Vorrei però dire che trasformare la vittima in colpevole attraverso un gioco linguistico è un’operazione pericolosa. In quel silenzioso dialogo di un essere umano con se stesso che Hannah Arendt chiamava “pensiero”, alle parole non è affidato il compito della confusione, ma «l’attitudine a discernere il bene dal male, il bello dal brutto. Il che, forse, nei vari momenti in cui ogni posta è in gioco, è realmente in grado di impedire le catastrofi, almeno per il proprio sé» (H. Arend, La vita della mente, Il Mulino, Bologna, 2009, p. 289). Può essere che la catastrofe del naufragio non fosse evitabile (e se così non fosse, sia fatta giustizia!), ma la catastrofe della coscienza collettiva e individuale doveva essere impedita. Non è solo questione di generosità: ne va della nostra stessa sopravvivenza come persone umane. Perché se oggi, di fronte a questa sciagura, trasformiamo le vittime in colpevoli, sarà più facile farlo domani, di fronte ad altre sciagure. Sarà più facile che qualcuno lo faccia con noi, il giorno in cui — Dio non voglia — saremo noi le vittime.
Le parole ritrovate. Sembra incredibile, ma qualche giorno fa sono riemerse alcune parole inviate da Kenan Shukur, un giovane afghano morto nel naufragio. Suo padre è stato il braccio destro del Leone del Panshir, il comandante Masud che ha dato del filo da torcere per anni ai Talebani. Prima di partire, Kenan aveva scritto a un parente una sorta di poesia in versi: «La terra della mia anima è così dura, c’è un sasso pesante sul mio petto, da questo barcone ho capito che chi vede la realtà deve essere realista, che sei il luogo in cui arrivi e quella è la tua ultima destinazione». Queste parole così prive di speranza, questo abisso di disillusione che sgorga dal cuore di un giovane che ha visto ogni suo sogno svanire, compreso quell’ultimo viaggio in nave: queste sono le parole a cui noi dobbiamo rispondere.
Le parole da dire. «Non ci sono parole», si dice giustamente di fronte alle immani sciagure. Non ci sono, eppure bisogna trovarle: questa è la sfida di ogni lutto. Bisogna saper tacere, certo, ma al contempo bisogna saper parlare. Certo, è molto urgente trovare delle azioni politiche giuste e delle soluzioni pratiche. Ma non lo faremo se non avremo scambiato le parole giuste, quelle che ci permettono di restare umani. Per me le parole da dire sono queste: «è possibile». È possibile che non capiti più, faremo in modo che non capiti più. Osserviamo da anni la scena delle migrazioni, le sue conseguenze più prossime e più remote. Sappiamo benissimo cosa accade a chi intraprende il viaggio; sappiamo la vita di chi arriva ai primi centri di accoglienza; sappiamo cosa accade loro dopo, mentre attendono che la corte si pronunci; conosciamo le code di ore, talvolta di giorni, per ottenere o rinnovare un permesso di soggiorno; conosciamo le tensioni sociali che si generano. Sappiamo tutto, ma c’è una cosa che tocca a noi dire: che è possibile fare fronte a ciò che sta accadendo. È possibile,perché l’essere umano è colui che riesce a rendere possibile l’impossibile. L’essere umano, non gli dèi. Abbiamo fatto fronte, nella nostra lunga storia, a catastrofi immani: terremoti, guerre, sconvolgimenti politici; quasi ottant’anni fa abbiamo ricostruito un’Europa distrutta. È stato possibile e lo sarà ancora, se lo vorremo. Mi torna spesso in mente una vicenda vera, letta alcuni anni fa in un libro di un sociologo della scienza. Nell’Ottocento, in Inghilterra, una delle parti più rilevanti del sistema economico era l’industria tessile, ma all’inizio le operaie e gli operai nelle tessiture erano soprattutto bambini. Ora, quando a un certo punto la cultura moderna incominciò a condannare il lavoro minorile, gli economisti e gli esperti del tempo sostennero che sarebbe stato un passaggio insostenibile: impossibile fare a meno dei bambini, perché ormai tutte le macchine (siamo in piena rivoluzione industriale) erano state costruite a misura loro. Eppure, nel giro di alcuni anni, l’Inghilterra convertì tutto il suo sistema produttivo: si costruirono macchinari più grandi, si riorganizzarono i turni e il mondo diventò un luogo più giusto per i bambini, che incominciarono ad andare a scuola. Fu possibile, contro ogni analisi, contro ogni aspettativa. Per un semplice fatto: che è sempre possibile.
Anche oggi, contro le analisi più pessimistiche, è possibile accogliere chi sta fuggendo, dare un futuro a chi ne è stato privato, operare la giustizia a chi ha subito le più tremende ingiustizie. E, poiché, come scriveva Charles Péguy, «non si fatica che per i figli», allora l’impossibile lo faremo per loro, per questi figli che sono anche nostri. Lo faremo per dire loro che no, tu non sei «la tua ultima destinazione», lo faremo affinché loro possano, un giorno, ripetere ai loro figli che nessuno è il luogo in cui arriva, perché l’impossibile è stato possibile. Almeno questa volta. E allora, solo allora, avremo fatto la storia.