
IL SOGNO, TEMA DI BOOKCITY 2023

DANZANDO CON LE API
UNA SCUOLA CAPOVOLTA

Settembre 1973, sto per compiere ventisei anni e penso di essere ormai piuttosto navigata e di avere accumulato negli otto anni come insegnante una discreta conoscenza delle dinamiche della scuola. È settembre e il 1 ottobre comincia la scuola: dovrei tornare nella scuola di Legnano che tanto detesto per i motivi che ho raccontato nell’episodio scorso. Non ho nessuna notizia a proposito del trasferimento richiesto e, per questo, faccio la spola tra la mia casa e il kafkiano Provveditorato situato allora in Piazza Missori, per verificare la possibilità di un trasferimento. Ogni volta la stessa risposta: «ancora non sappiamo nulla, torni domani» e ogni volta torno a casa desolata e preoccupata. Sul calendario il 1 ottobre si avvicina minacciosamente, quando finalmente una mattina dell’ultima settimana possibile per le assegnazioni, suona il vecchio caro telefono di casa. «Buongiorno, la professoressa Bragonzi?» mi chiede una matura voce maschile. A quei tempi, noi donne sposate perdevamo il nostro cognome per acquisire quello del marito, cosa cui non ero ancora molto abituata, tanto da rimanere ogni volta un po’ titubante: non sono più Milvia Fioroni e questo già mi suona un po’ strano. La voce si rivela quella del preside della scuola media di via Catone, la scuola del mio quartiere, che mi convoca per un colloquio conoscitivo il giorno successivo.
Mi presento, dopo una piacevole passeggiata a piedi, in un mare di trepidazione e vengo scortata dal custode nell’ufficio del preside, un uomo sulla cinquantina, forse anche più, piuttosto trasandato che mi fa accomodare in un ufficio disordinato al pari suo. Immediatamente il preside mi dichiara con orgoglio di dirigere una delle prime “scuole sperimentali” di Milano, senz’altro la prima della zona: una scuola nuova più adatta alle esigenze degli alunni e del mondo moderno, cosa che gli dà il diritto di scegliere direttamente i suoi insegnanti: insegnanti che devono essere giovani, di ampie vedute, altamente motivati, forti, coraggiosi, insegnanti speciali, insegnanti per vocazione che sappiano dare vita a una scuola speciale! Un climax che, da una parte, mi spaventa ma, dall’altra, mi suona come un forte appello alla coscienza, una sfida importante: se non adesso, quando? — mi chiedo rapidamente e, d’istinto, rispondo che ci sto. So bene che se tornassi a casa e cominciassi a confrontarmi con mio marito, con la mamma e le amiche della vita, tutti mi metterebbero in guardia. Ma io non ho dubbi: né sulla mia passione, né sul mio coraggio, né sul desiderio e la capacità di cercare e percorrere strade nuove.
Il colloquio con il preside continua con l’indicazione delle persone che mi hanno presentata e, a mia totale insaputa, raccomandata caldamente a lui: confessa, l’uomo, di essere piuttosto sorpreso del fatto che a fare il mio nome siano state due persone appartenenti a aree politiche molto differenti, opposte anzi: da una parte, la professoressa tal dei tali, ottima insegnante di area cattolica moderata; dall’altra, un giovane sacerdote, allora coadiutore di don Virginio Colmegna, extra parlamentare, del quale ho sentito parlare come del responsabile della ardita trasformazione dell’oratorio di una parrocchia del quartiere in una vivacissima sede di Lotta continua. «Quindi – dice il preside – ero veramente curioso di conoscerla e di capire se sia la persona adatta per questa scuola!» Io rimango stupita: il fatto che la scuola sia nel mio quartiere mi dà grande gioia e mi rassicura: so già che molti miei alunni saranno i ragazzi che io già conosco più o meno, figli del vicino, ex alunni delle elementari dove ho insegnato religione alle elementari, ragazzi dell’oratorio o monelli di fama straordinaria nel quartiere. E poi, la passione per la cultura e per i ragazzi non ha colore politico, non deve averlo! Sì, sono interessata, non ho dubbi! Il preside felice mi ragguaglia circa alcune caratteristiche della scuola: primo, non si usano libri. Gulp, sgrano gli occhi e poi sorridendo accuso il colpo e immediatamente mi metto a pensare al modo migliore per ovviare a questo non trascurabile particolare. Secondo, niente voti e chiaramente niente bocciature: sulle pagelle ufficialmente un bel 10 in ogni materia curricolare. Non c’è neanche un registro: ogni insegnante tiene appunti su un album o un quadernone personale per relazionare a colleghi e famiglie. «Se vuole iniziare, le presenterò il primo di ottobre la sua nuova classe, un po’ particolare forse, la III F». Ragazzoni dunque, ma non ho paura perché quando si tratta di insegnare, so di essere forte abbastanza per qualsiasi situazione!
Arriva il 1 ottobre e emozionata mi presento a scuola come tutti. Il custode mi accompagna in Aula professori e mi indica un cassetto su cui un cartellino riporta il mio nome: Prof.ssa Milvia Bragonzi. Ogni professore ha il suo. Guardo meglio e vedo una strana scritta accanto al mio nome: col pennarello nero indelebile a caratteri grandi c’è scritto FASCISTA! Non ho mai saputo chi abbia scritto quella parola che mi sorprende: per quale motivo sono identificata come fascista? Una collega che conosco appena, leggendo la perplessità nei miei occhi, mi chiarisce subito che chi ha studiato in Università Cattolica e frequenta la chiesa di Dergano agli occhi dei alcuni colleghi è fascista. Mi sorride e mi dà il benvenuto, consigliandomi di tirare dritto per la mia strada…
E proprio questo farò, prendendole da destra e da sinistra. Ma di questo parlerò la prossima puntata…