
LIBERAZIONI E FASCISMI

SPERANZE
SULL’OCEANO: STORIA DI UN POPOLO

Parlare di migrazioni e di futuro non significa solamente avere a che fare con un fenomeno contemporaneo: gli esseri umani si muovono sin dall’alba della loro storia, in cerca di un futuro migliore. Il rischio, tuttavia, è immaginare che questi viaggi della speranza riguardino anzitutto altri, quasi si ripresentassero di volta in volta come incidenti di percorso all’interno di una storia di gente per bene che vive al sicuro nelle solide mura ordinate della propria casa. Per accorgerci che non è così, basta ricordare che la storia del nostro Paese incomincia come una storia di emigranti. Si calcola che tra il 1870 e il 1914 circa nove milioni di italiani lasciarono la loro patria: un numero strabiliante, se si pensa che in quegli anni la popolazione raggiungeva a malapena i trenta milioni. Un esercito di diseredati, proprio negli anni in cui l’Italia celebrava la sua ritrovata unità politica, divise il proprio destino da quello della neonata nazione. Forse è anche per questo motivo che sono pochissimi, in quegli anni, i racconti dedicati a questo esodo: un’Italia che aveva l’esigenza di celebrare l’unità non poteva certo concentrarsi su questa separazione dolorosa. Certo, la figura dell’emigrante, l’abbiamo visto in alcuni quadri dell’Ottocento, non ha potuto non segnare il nostro immaginario; di rado, però, qualcuno si è preso la briga di raccontare. Milioni di storie sono andate perdute, affidate a qualche rara fotografia, a documenti di viaggio e alle storie private di migliaia di famiglie, custodite fino a poche generazioni fa ancora con sentimenti contrastanti di orgoglio e di vergogna.
Un’eccezione singolare è Sull’Oceano, il racconto di viaggio che Edmondo De Amicis pubblica nel 1889, per raccontare i suoi 22 giorni di traversata oceanica a bordo della motonave Galileo. L’autore del famosissimo libro Cuore — una sorta di celebrazione narrativa degli ideali laici del risorgimento su cui tanti ragazzi italiani sono stati educati — fu per molti anni un giornalista ed è con questo sguardo curioso e indagatore che descrive il suo viaggio, muovendosi tra la poppa elegante, destinata ai 70 viaggiatori di prima e seconda classe, e la miseria della prua, dove circa 1500 emigranti vivono assiepati, quasi sospesi in mezzo a una distesa d’acqua che molti di loro non sapevano neppure immaginare.
Sull’Oceano è anzitutto una collezione di ritratti: i silenziosi contadini calabresi, i liguri baldanzosi, i montanari intimoriti, gli operai lombardi, la massa dei veneti e qualche signora bolognese: «era gente costretta ad emigrar per fame». De Amicis guadagna faticosamente il suo ruolo di osservatore, sfidando il rancore dei poveri nei confronti di tutti i passeggeri della prima classe: è come se gli stessi signori che li avevano affamati in patria, costringendoli a partire, li seguissero nel viaggio, come vampiri mai sazi del loro sangue. Lentamente, però, il suo timore si trasforma in un affetto profondo, lo stesso con cui descrive le loro miserie e le loro ragioni. Non mancano, d’altra parte, anche ritratti più spietati, riservati per lo più ai ricchi viaggiatori, immersi nella noia del lungo tragitto.
Ciò che egli riporta, soprattutto, è lo stridore tra questo esercito di miseri e i toni trionfalistici della nuova Italia: «Oh, l’interminabile miseranda sfilata! E l’immaginazione, come uno scherno, mi rappresentava ostinatamente, di là da quella miseria affannata, le baldorie patriottiche degli sfaccendati, dei benestanti e degli illusi, urlanti d’entusiasmo carnevalesco nelle piazze d’Italia imbandierate e splendenti!».
Ecco che, allora, il Galileo diventa, nella penna raffinata dello scrittore, una piccola Italia con tutte le sue tensioni drammatiche, con le ingiustizie sociali: è la prova che non si fugge mai realmente dal proprio destino, si porta con sé, nel viaggio, le contraddizioni della propria casa. A poco vale il gesto di sfida che, lasciando il porto di Genova, un vecchio migrante rivolge all’Italia, alzando il pugno in spregio del passato: quel passato irrisolto segue i passeggeri (nobili, borghesi o migranti) e attraversa l’Atlantico con loro. Il Galileo appare, dunque come una bomba a orologeria, ma anche come la possibilità estrema di fare i conti con la realtà, di trovare una riconciliazione possibile, di fare davvero l’Italia.
Almeno tre episodi rendono possibile l’impresa impossibile: la nascita di un bambino, la morte di un anziano emigrante e la malattia di una giovane donna, la signorina di Mestre. Il piccolo, figlio di due migranti, viene battezzato sulla nave, con una cerimonia semplice ma solenne, con padrino e madrina d’eccezione, scelti in prima classe. La gioia e la tenerezza per un momento uniscono tutti; ma la celebrazione del rito ripropone le barriere sociali consuete e tra la folla di emigranti, assiepati ma tenuti lontani dai marinai, presto si alza un grido: «Strusciate, strusciate i signori! Oggi lo tengono a battesimo e quando sarà grande lo faranno crepare di fame!».
La morte di un anziano migrante di Pinerolo, partito già malato per ricongiungersi al figlio, esacerba ancora di più gli animi, al punto che il commissario della nave decide di celebrare il funerale di nascosto dai passeggeri della terza classe, per evitare ogni possibile sommossa. Nascita e morte, da sole, non bastano, quando non c’è spazio per la condivisione degli affetti che esse generano nei passeggeri.
Il miracolo lo compie, invece, la signorina di Mestre. Fragile e bella, fin dai primi giorni si guadagna il rispetto e l’affetto di tutti: «al suo apparire, anche i contadini più rozzi si scansavano (…) E non era rispetto per la signora, ma per la triste sentenza che le vedevano scritta sul viso, e per la dolce rassegnazione con cui essa mostrava di portarla, senza nulla aver perduto della bontà e della gentilezza giovanile che nascono dall’amore felice della vita». La signorina di Mestre è premurosa con gli emigranti, nonostante il suo destino: li riempie di doni e di consigli, senza ombra di compatimento. Il segreto della riconciliazione sembra dunque questo: qualcuno che non ricambi il male con altro male, qualcuno che, di fronte alla miseria, sia capace di rimanere umano. Una lezione per tutti: per i cuori infiammati degli emigranti e per le mollezze annoiate della prima classe.
La passeggera di prima classe peggiora lentamente durante la traversata e tutti capiscono, al momento dello sbarco, che non le resta molto da vivere; così il congedo sembra quasi una cerimonia funebre, la stessa che era stata negata agli emigranti alla morte del vecchio di Pinerolo. Questa volta, finalmente, il sentimento è corale e condiviso, persino il comandante della nave ha gli occhi lucidi. Il Galileo, simbolo dell’Italia, ha ritrovato la sua unità attraverso un’umanità condivisa.
Certo, riflettiamo con i ragazzi, i viaggi dei migranti italiani furono molto diversi da quelli delle migliaia di migranti che oggi attraversano il Mediterraneo. Non solo per la precarietà del viaggio, ma soprattutto perché quelli di oggi sono viaggi di solitudine. Caricati su mezzi di fortuna, spesso sulle coste del Nord Africa, i migranti di oggi sono invisibili, non c’è alcuna prima classe accanto a loro. Forse è un caso, ma si ha l’impressione che la modernità, con tutta la sua tecnologia e con la sua retorica di democrazia e di uguaglianza, abbia soprattutto affinato la macchina sociale, costringendo i poveri a un isolamento, a una clandestinità, a una solitudine mai conosciuta prima. Immunizzandosi dai drammi della vita reale, la nostra società si è messa al riparo dalle tensioni irrisolvibili del Galileo. Ma si è anche resa del tutto incapace di risolverle.