
COLLEZIONE MONZINO: LA CULTURA COME BENE COMUNE

BONA VERBA LENTE MOVENT, MALA EXEMPLA CELERRIME TRAHUNT
DANTE E IL (SUO) FUTURO

Come lo scorso anno con il desiderio, anche quest’anno concludiamo il percorso sul futuro grazie a Dante. Perché nella Divina Commedia c’è tutto e tutto ritorna. Anzitutto, quello di Dante è un viaggio, il più famoso e più ardito della letteratura italiana: il pellegrino ha perduto se stesso, non solo la via: come una statua di Bruno Catalano, è attraversato da vuoti, come un emigrante ha lasciato la patria, come un naufrago si scopre immerso nel male; in sette giorni, scendendo, salendo e volando ritrova i frammenti perduti di sé, fino all’ultima visione, in cui si scopre completo, in Dio.
In questo viaggio che da sé parte e a un nuovo sé ritorna, più volte Dante ha accesso — talvolta ambiguamente, talvolta più esplicitamente — al proprio futuro. Sono due le forme principali di questo svelamento: la profezia e il conferimento della missione.
Numerose sono le profezie che riguardano alcuni personaggi e alcuni eventi storici, ma sono solamente sette quelle che anticipano al pellegrino il suo personale destino, sempre comunque profondamente intrecciato con la storia politica di Firenze e dell’Italia: non si indugia mai nella dimensione più familiare e intimistica, sia per l’indole notoriamente riservata del poeta, sia per sua la convinzione che la vita privata assuma valore e interesse solo se spesa per il bene comune.
Sette sono i personaggi che profetizzano: proprio come nella polisemia della preposizione pro-, alcuni parlano a suo favore, altri semplicemente prima o davanti a lui. Si tratta, certo, di profezie ex post, di eventi che Dante poeta già conosce e vive, sebbene Dante pellegrino ne sia ancora ignaro.
Quattro profezie sono nella prima cantica, due nella seconda, una solamente in Paradiso, con il compito di svelare il senso di tutte le precedenti. Il goloso Ciacco (If VI,64–75) predice le fortune e sfortune dei guelfi bianchi, le sanguinose battaglie e l’instabilità politica di Firenze, che il poeta presto patirà in prima persona. Farinata degli Uberti (If X,77–81) rincarerà la dose, sbattendo in faccia al poeta che egli dovrà presto imparare l’arte del non tornare in patria, la stessa che il suo casato ha ben conosciuto. C’è dolore e non sarcasmo nelle parole di Brunetto Latini: sebbene gli annunci che il popolo di Firenze gli si «farà nimico», l’amico poeta dà un senso a questa inimicizia: non può crescere un frutto dolce («fico») in mezzo a frutta aspra («lazzi sorbi»). L’apice della cattiveria lo raggiunge il ladro Vanni Fucci: l’annuncio terribile «ch’ogni bianco ne sarà ferito» è seguito da un’esplicita intenzione: «detto l’ho perché doler ti debbia!».
Dante non si scompone mai di fronte a questi annunci di sventura, per la verità. Solo nel decimo canto, dopo aver incontrato Cavalcante e Farinata, si accorge della singolare visione dei dannati, che conoscono il passato, il futuro, ma non il presente e ne chiede conto a Virgilio. Una vita senza più speranza non può far tesoro né del passato, né del futuro: queste conoscenze portano solo dolore, proprio come nella maledizione di Edipo: «è tremendo il sapere, quando fa male a chi sa», diceva Tiresia nella tragedia. Solo nella consapevolezza del proprio presente si può generare il futuro.
A differenza di quanto annunciato da Virgilio, a svelare il senso di queste profezie, non sarà Beatrice, ma il trisavolo di Dante, il nobile Cacciaguida, nei versi sublimi del XVII canto del Paradiso: «Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come è duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale». Cacciaguida consola il nipote: nonostante l’onta dell’esilio, un giorno saranno i suoi nemici a doversi vergognare e ad aver «rossa la tempia». La profezia di Cacciagiuda, tuttavia, sfuma nel suo naturale compimento, che è quello della missione: conoscere il futuro chiede sempre il coraggio della responsabilità.