
IL DONO DELLA SPERANZA, LA SPERANZA DEL DONO

FACCIAMO LA PACE!
VADO A SCUOLA, UN FILM PER RITROVARE LA STRADA

Jackson ha 11 anni, vive in Kenya, in mezzo alla savana tra gli animali selvatici, Zahira ha 12 anni, con la famiglia abita le aspre montagne dell’Atlante marocchino, Samuel ha 13 anni e ha disabilità motorie, cresce con i fratelli nella campagna indiana, Carlos ha 11 anni e la sua casa è la pianura della Patagonia.
Sono i protagonisti di “Vado a scuola”, il film documentario di Pascal Plisson, presentato al Festival del cinema di Locarno nel 2013 e vincitore del Cesar 2014 come miglior documentario. I quattro ragazzi devono percorrere a piedi per andare a scuola decine di chilometri su percorsi impervi e, a tratti, pericolosi, ma il desiderio di studiare è una forza che li spinge, è qualcosa che accende loro gli occhi e sembra guidarli su percorsi pericolosi e che, per noi, abituati a distanze non solo più comode, ma decisamente più modeste, sembrano calati in una geografia scomoda e apparentemente disorientante.
Sono passati tredici anni, eppure quel racconto conserva l’attualità e continua a parlare di un mondo in cui i divari economici e sociali ancora definiscono la vita dei bambini alle diverse latitudini.
Plisson compie una operazione di lettura della realtà. Il film non ha voce d’appoggio, è una presa diretta dei protagonisti, calati nelle loro esistenze, nei gesti quotidiani, spesso catturati in primi piani di grande impatto. Tutti, ancor prima che giovani scolari, sono membri attivi delle famiglie, partecipano del lavoro di ricerca e raccolta del cibo, di gestione della casa e dei fratelli, con quella consapevolezza del fare che c’è nelle famiglie che conquistano ogni giorno quel che serve per vivere.
Jackson parte da casa, ha davanti quindici chilometri che lo separano dalla scuola, al suo fianco, Salomé, la sorella, la sua ombra. Il padre li saluta raccomandando la strada e la prudenza, per evitare i pericolosi elefanti. Jackson è attento, responsabile, volitivo, insegna alla sorella a osservare la savana, a scappare dal pericolo e in fretta, perché vuole arrivare in tempo: toccherà a lui l’alzabandiera che aprirà la giornata di scuola. Zahira è un’aspirante dottoressa, per lei la scuola è opportunità, speranza, necessità, vorrebbe che tutte le giovani figlie delle montagne, come lei, avessero la possibilità di andare a scuola e per affermarlo, ogni lunedì, si spinge con due amiche sui sentieri pietrosi e sconnessi che le conducono a scuola, in una gara con il tempo che trascorre più veloce dei loro passi. Samuel è appassionato di storie e di futuro, è costretto su una rudimentale sedia a rotelle, che i due fratelli spingono lungo le strade pesanti e fangose, per arrivare alla città dove li attende la scuola, accolti dai compagni con entusiasmo. Carlos cavalca come un grande, orientandosi nella sterminata pianura della Patagonia, terra che ama, lungo i 25 chilometri che, insieme alla sorellina, deve percorrere per raggiungere la scuola, dove impara le tecniche di allevamento, la lingua e le scienze, che gli faranno conquistare l’ingresso in un collegio.
Può sembrare una facile retorica, una denuncia a contrasto del mondo: guarda che bravi i bambini dei paesi diseredati, che si impegnano per imparare, mentre nel nostro mondo occidentale la scuola è un dato scontato e fin troppo semplice. Sicuramente esiste una provocazione e la rivendicazione per ogni bambino del diritto allo studio, come sancito nella Convenzione Internazionale dei diritti dell’infanzia, tanto che il film ha ottenuto il patrocinio dell’UNESCO e di “Aide et Action”. Il lavoro di Plisson, però, può portare qualche spunto in più.
Se è vero che la difficoltà nel raggiungere un qualcosa rende quel qualcosa ancora più desiderabile e la conquista più ambita, forse anziché semplicemente condannare il disamore per la scuola che sembra essere dichiarato dal mondo dei nostri giovani, si potrebbe pensare a quell’entusiasmo interrotto come la difficoltà, il terreno impervio sul quale sono impegnati i ragazzi, ma di cui, a differenza dei loro coetanei in quelle terre lontane, non hanno consapevolezza. E forse, oltre a mettere sulle loro spalle zaini enormi, carichi di pesi di pagine che l’anno scolastico non riesce a smaltire, dobbiamo ricostruire in loro il senso della scuola e quel desiderio di imparare.
Il film, in primo luogo, punta lo sguardo sui ragazzi. Sono piccoli, non più piccolissimi, le condizioni in cui vivono li richiamano a responsabilità non solo verso loro stessi. E a quel richiamo rispondono, facendosi di carico delle cose da fare, ma anche delle loro aspettative, delle loro proiezioni nel futuro. E’ una cosa difficile, ma i ragazzi non hanno paura di cimentarsi in cose difficili, non ne hanno i protagonisti del film, ma neanche i loro coetanei nelle nostre strade. Lo dimostrano i ragazzi che partecipano alla nostra Accademia, ogni sabato mattina: anche se gli strumenti (la parola, la grammatica, la sintassi, la matematica) non sono perfetti, si tuffano con entusiasmo e mente vivace nelle pagine della grande letteratura, nei pentagrammi della grande musica, nelle opere della grande arte, percorrendo strade in cui sono loro, con i loro pensieri, a sorprendere noi. Di fronte agli argomenti grandi, ai temi potenti, la mente si nutre, si entusiasma, cresce.
I protagonisti del film legano all’istruzione il loro desiderio di vita adulta, vogliono imparare per poter cambiare il mondo, almeno un po’. Quando nel nostro mondo abbiamo smesso di pensare alla scuola come vita? Si parla di diritto allo studio, ma poi ai ragazzi lo si fa percepire solo come dovere e quasi come un dovere fine a se stesso o a una esibizione di nozioni o finalizzato a un successo misurato in denaro. I ragazzi, così, hanno smesso di desiderare e di legare la realizzazione di un desiderio a un percorso di arricchimento del pensiero per diventare grandi, hanno smesso di vedere e apprezzare il privilegio dello studio, mentre studiare è davvero prezioso, e anche la fatica ha senso, se diventa nutrire un sogno per la vita.
Magari non sarà cosi per tutti, ma anche il documentario ci mostra che i protagonisti si muovono tra coetanei che non sentono o non sono stati invitati a sentire la scuola come ponte verso il possibile.
E qui, il film restituisce agli adulti il ruolo e la responsabilità.
Jackson e i suoi compagni di vita parallela sono sostenuti dalla famiglia: genitori che non hanno studiato e che si illuminano parlando ai figli del valore della scuola. Genitori che tengono talmente tanto a questa possibilità di vita, da fidarsi dei figli anche di fronte ai rischi e ai pericoli delle lunghe strade su cui viaggiano da soli. A scuola, trovano insegnanti che li aspettano, li accolgono e trasformano l’istruzione in forza per le loro ali. Lungo la strada incontrano adulti indifferenti, a volte, persino ostili, ma anche quelli che si fermano, che li soccorrono, che li aiutano a superare un ostacolo o una difficoltà.
Così, la crescita dei giovani è uno slancio che attraversa le generazioni e i più piccoli devono sapere che esiste un mondo adulto che li sostiene, che crede in loro, che lascia lo spazio al desiderio e che sceglie di mettere in gioco, creando una rete virtuosa, quello che sa, e che, insieme a loro, vive un pensiero che non smette mai di interrogare, di cercare, di studiare.
“Il mio sogno è che un giorno volerò. Un giorno, quando diventerò pilota, potrò volare e vedrò la natura, altri Paesi lontani, vedrò i laghi, le montagne più alte e tante cose”, mentre Jackson racconta, le sue mani si muovono, quasi a plasmare le parole.
L’augurio è che il suo volo possa essere alto e emozionante, che lo conduca alle “tante cose”, come ci auguriamo che sia anche per i nostri ragazzi, animati sempre dal desiderio di ascoltare. Ognuno col suo sogno di volo, non nel cassetto, ma tanto forte da conquistare il cielo.