
WE FAILED YOU

DARE PAROLA
LA PICCIOLETTA BARCA, PICCOLA BARBIANA

Il nostro legame con Barbiana è innanzitutto fisico: in un gelido giorno di gennaio del 2016 infatti, nella chiesetta di Barbiana, seduti sull’ultima panca, Roberto Maier e io abbiamo scritto il primo statuto dell’associazione: alla nostra destra era l’angelo degli scolari realizzato dallo stesso Milani che di doti ne aveva tante, anche quella artistica. Alla fine della stesura ricordo che avevamo le dite blu e irrigidite perché a Barbiana fa freddissimo e Dio solo sa quanto debbano avere patito negli anni ’60 quei poveri ragazzi! Da allora, ogni anno torniamo. Legame fisico reale, dunque, e legame interiore con una condivisione totale delle convinzioni e della passione di Milani e qualche piccolo scostamento, dovuto al passare degli anni e all’osservazione della storia e dell’evoluzione di Barbiana.
Riprendo brevemente alcuni passaggi dell’intervento del mio socio, Dare parola, per raccontare come lavoriamo in Piccioletta barca, nata attorno al desiderio, alla ricerca della parola giusta, di cui ha parlato Roberto.
Comincio con il pronunciare due parole che credo siano le parole giuste da cui partire per dire chi siamo. La prima: la presenza dei ragazzi qui con noi. Oltre a noi, a rappresentare la Piccioletta Barca oggi ci sono i nostri ragazzi, la cui presenza davvero non ha nulla di scontato. Sono ragazzi delle medie, un paio di seconda superiore: sono i ragazzi che ogni sabato mattina, alle 10, si incontrano nella nostra sede, d’inverno fredda come Barbiana, a parlare di libri e cultura. Quando abbiamo detto loro che oggi non ci sarebbe stata l’Accademia a causa di questo invito e abbiamo detto che chi desiderasse avrebbe potuto assistere, hanno aderito subito e pare siano anche disponibili a parlare in prima persona e a rispondere a eventuali domande.
Dunque la loro presenza è parola giusta perché è per noi certezza di avere vissuto e di stare vivendo una realtà che cento volte da capo non potremmo dire diversamente da così: la loro presenza è sinonimo di coraggio, di energia, di voglia di mettersi in gioco, di scoprire e conoscere: non poco per una generazione che in tanti sono sempre pronti a chiamare sdraiati!
La seconda parola è questo libro: il primo libro della Piccioletta Barca, primo di una serie ci auguriamo. È la nostra prima prova di scrittura collettiva, quella che abbiamo imparato da Milani ed è il frutto del lavoro fatto lo scorso anno, di sabato in sabato, frutto del dialogo fra noi, i ragazzi e i grandi autori. È parola giusta perché, di nuovo ci dà la certezza di avere vissuto.
Avere vissuto e vivere cosa, dunque?
La passione per la parola e la volontà di restituirle la dignità, lo spessore, la potenza, la profondità che l’evoluzione, la contaminazione esasperata con l’inglese, la semplificazione, la banalizzazione del linguaggio sta soffocando e riducendo ai minimi termini. Ogni parola, sappiamo, ha un significante e un significato: eliminare il significante corrisponde a eliminare una presenza, non un semplice vocabolo. L’abolizione della parola “signorina” – scriveva qualcuno recentemente – catapulta pericolosamente la bambina all’età adulta, senza passare dalla delicata fase intermedia della fanciullezza; non avere termini precisi e puntuali per esprimere i propri stati d’animo crea frustrazione e tristezza. Chiunque ogni giorno si metta in ascolto del mondo con un poco di sensibilità non può non accorgersi della pochezza cui si è ridotto il vocabolario comune e di quanto quelle poche parole sulla bocca di tutti stiano sfumando verso tinte sbiadite e logorate dall’uso improprio e dall’abuso. Pochezza di numero e di sostanza. Parole grandi e potenti: pensiamo solo a guerra o pace in questi tristi giorni… tutto finisce in un grande calderone, dove la sapienza della lingua, l’acume dell’etimologia, la ricchezza delle sfumature si liquefanno in una banale lingua franca, dove c’è posto per tutti e per tutto.
Eppure, una sola parola, se pretendiamo di non ingoiarla una volta per tutte, se ci mettiamo al suo ascolto, dimostrerà di essere tanto vasta e profonda da poter diventare la parola giusta, la parola esatta per parlare di sé e del proprio vissuto, che seppur diverso per ogni uomo, può miracolosamente essere detto con una sola parola uguale per tutti. Una parola sola in Piccioletta barca diventa centro di ore interminabili di ricerca, di confronto e di affetto.
Dov’è la parola giusta? Una frase a me carissima, trovata in una vecchissima antologia che ho perduto purtroppo, dice che la parola giusta è sopra la testa: per trovarla bisogna alzare lo sguardo, guardare in alto. E Emily Dickinson dice che non “conosciamo mai la nostra altezza finché non siamo chiamati ad alzarci”: dunque trovare la parola giusta non è un’operazione intimistica di ricerca interiore e conoscenza del sé, né tanto meno è attitudine innata, come se un bambino nascesse poeta: è ricerca, lavoro, è fatica, è misurarsi con chi è più grande di noi, con chi ha disegnato la storia dell’umanità ed è dialogo continuo.
L’accademia della Piccioletta barca è dialogo. E qui c’è un legame forte con Barbiana e una piccola differenza da Barbiana: il legame è l’affermazione riportata sul volantino “Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo”; la differenza è che di fronte ai ragazzi siamo sempre due, due voci, una maschile e una femminile oltretutto. Il confronto che insegniamo ai ragazzi, la necessità di uscire da sé comincia da noi che ci presentiamo non come depositari di un sapere, ma come studenti che prima di tutto mettono mano a un’opera e ne discutono, portando ciascuno la propria mente e il proprio cuore: in tre ci presentiamo ai ragazzi, in tre perché con noi c’è un grande autore, in cinque, in dieci perché accanto all’autore ci sono altri grandi autori che, a loro volta, ne hanno fatto oggetto di studio e di pensiero e poi diventiamo trenta, quaranta perché a noi, all’autore, agli autori si aggiungono i ragazzi che hanno da dire, sempre. Noi sappiamo solo qualcosa in più dei ragazzi perché studiamo e lavoriamo insieme, mediamente per un incontro di Accademia ce ne sono quattro di lavoro individuale prima e condiviso poi. Non siamo detentori di un magico metodo pedagogico, né pensiamo di essere sapienti abbastanza per poter parlare a un adolescente di temi importanti senza interrogarci e senza interrogare la vita sempre da capo. La difficoltà del dialogo fra generazioni sta spesso nella pretesa degli adulti di rivolgersi ai giovani dicendo: te lo dico io cos’è l’amore! e il ragazzo subisce e poco si fida. Se invece insieme, noi e loro, guardiamo a un classico, i nostri dubbi, le nostre ansie, le paure e le gioie sono le stesse di uomini e donne che nei secoli hanno parlato creando opere immortali.
Non possiamo pretendere di proporre le nostre soluzioni perché, in fondo, chi siamo noi? Le cose più grandi della vita non si capiscono mai ‘in diretta’ e noi non siamo, in questo, tanto diversi dai ragazzi: abbiamo bisogno, insieme, di spazi di ascolto, di ruminazione e di riflessione.
Da sempre, dedichiamo un intero anno della nostra Accademia a una sola parola.
Per prima cosa, ne ricostruiamo la biografia, perché ogni parola, proprio come ogni essere umano, ha la sua storia: a partire dal nome che gli uomini hanno inventato per lei e che dice molto riguardo al loro sentire e al rapporto che con essa hanno intessuto. La parola viene scritta in stampatello al centro di un grande tabellone durante il primo incontro e, subito dopo, i ragazzi sono invitati a pronunciare ad alta voce tutti i vocaboli che, lungo un sentiero o l’altro, quella parola porta alla loro mente, motivando la scelta. Le prime parole sono immediate e certamente un po’ scontate, ma, man mano che i minuti passano diventano più sofisticate, inusuali, sorprendenti talvolta. Queste parole vengono scritte con un altro colore sul tabellone.
Comincia poi il lento cammino nelle opere scelte con cura, lette o rilette da noi adulti: pietre miliari della biblioteca del cuore di ognuno di noi, opere suggerite da un saggio, da un programma culturale, da un amico. Le raccontiamo, calandole nel loro contesto storico e sociale, presentando gli autori, riassumendo la trama e, soprattutto, cediamo loro la parola, leggendone ampi passaggi: non sono mai libri per ragazzi – che poi, a ben pensare, esistono classici scritti esclusivamente per i ragazzi? -, mai riduzioni o semplificazioni: il libro, così come è stato scritto e se il linguaggio è difficile non facciamo che spiegare, trasformare, rendere il periodo accessibile a un ragazzo di prima, seconda, terza media. Parliamo e dialoghiamo, poniamo domande e offriamo ai ragazzi spunti differenti per poter elaborare il loro pensiero. E così, piano piano, i ragazzi conoscono opere, sentono nomi reali o fantastici, imparano intrecci che vanno a depositarsi nel tesoro della loro memoria, per non uscirne mai più: tutti noi adulti sappiamo bene quanto le parole imparate in giovane età esondino dalle nostre labbra senza bisogno che nemmeno le pensiamo.
Quando la trattazione di un testo – sia esso un’opera letteraria, un dipinto, una musica – è terminata, torna protagonista il nostro tabellone: a quali delle parole scritte il primo giorno ti conduce questo testo? Quale parola nuova ti suggerisce? E così, di opera in opera, quella prima parola scritta in stampatello, è tronco che genera rami, che generano foglie e fiori e frutti sempre nuovi, lontani dal tronco ma a esso sempre connessi tramite la magia di una consonanza, di un rimando, di una riflessione. La parola genera e la cultura progredisce quando nascono associazioni che nessuno ha pensato prima.
Nel libro Il dottor Semmelweis, Céline dice che “i bambini hanno, ancor più di noi, una vita superficiale e una vita profonda: la vita superficiale è molto semplice, ma la vita profonda è la difficile armonia di un mondo che si crea”. Un mondo in cui devono entrare, giorno dopo giorno, tutte le tristezze e tutte le bellezze della terra. È l’immenso lavoro della vita interiore, una gestazione spirituale in cui i maestri possono poco, se il loro sapere è freddo, se il loro lavoro è un semplice passaggio di nozioni.
È un metodo quella dell’Accademia? Sì, ma solo nel senso primo e originale della parola greca composta da odos che è la via, la strada e dalla preposizione meta che ha tanti significati belli e tutti appropriati: dopo, con, insieme, in accordo: il nostro metodo dunque è camminare insieme, un passo a lato, in accordo con i ragazzi, seguendoli quando deviano, rincorrendoli quando vanno più veloci di noi, recuperandoli quando si allontanano, perché piano piano imparino a trovare le parole giuste, le parole esatte e insostituibili con cui creare il loro mondo e, un domani, avere la certezza di avere vissuto.