
LA PICCIOLETTA BARCA, PICCOLA BARBIANA

DAL MITO AL LOGOS: CESURA NETTA O CONTINUITA’?
DARE PAROLA

Mi sembra che ci sia un profilo dell’eredità di Lorenzo Milani che non sempre emerge con chiarezza: il tema dell’educazione non viene mai pensato come una questione specialistica, come uno degli ambiti che fanno parte della vita di una comunità, come uno dei ‘servizi’ che la società civile deve fornire. C’è ben altro: il modo con cui una società educa i suoi figli è lo specchio di ciò che essa pensa riguardo al legame sociale. In questo senso – come accade per altri grandi educatori, penso a Paulo Freire in Sudamerica – la figura di Milani non può essere confinata nei manuali di pedagogia, nei corsi specialistici, nella letteratura di genere. Milani non è stato un educatore più di quanto non sia stato un prete, un teologo (mi pare che un lavoro teologico specifico su Milani ancora manchi), un uomo politico (cosa che pagò personalmente e che, forse, sta ancora pagando), un creatore di cultura. Attraverso tutti questi ambiti – che, appunto, non sono ambiti, ma rappresentano simbolicamente la qualità, la stoffa stessa della persona – ritorna la questione che vorrei contribuire a mettere a tema: quella del dare parola. Che mi pare, appunto, debba essere inteso come tema politico, teologico, sociologico portante, dentro e oltre la dimensione educativa, ma anche e anzitutto come tema antropologico. La sfida della Piccioletta Barca risponde a questo: se l’Associazione è effettivamente una ‘nuova Barbiana’, lo è perché si presenta come un centro di cultura per ragazzi, ossia di un luogo che è allo stesso tempo spazio educativo e creazione di cultura; già in Esperienze pastorali, Milani stigmatizzava l’incomprensibile scelta di separare educazione e cultura nel mondo cattolico, che incominciava in quegli anni a puntare tutto sul calcio-balilla.
Ora, se molte cose sono cambiate dai tempi di Lorenzo Milani, all’interno delle istituzioni scolastiche, il tema fondamentale, proprio quello che attraversa l’ambito educativo, culturale, politico, resta spesso eluso: come può un’epoca, una società, un’istituzione dare parola ai cittadini? Dare parola l’opera difficile che continua a starci di fronte e che non è un’opera anzitutto educativa. Perché, se attraversa veramente tutti questi ambiti, lo fa in quanto è una questione antropologica fondamentale: l’umano è colui che prende la parola, che trova la parola. Annie Ernaux, premio Nobel per la letteratura nel 2022, è una scrittrice che non solo racconta storie, ma racconta la storia di come si racconta, racconta, cioè, l’atto del dare parola all’evento. In un testo memorabile, che si intitola, appunto, L’evento e che racconta di un’esperienza personale e di come l’indicibile dell’esperienza viene a parola, la Ernaux scrive:
“Ho appena ritrovato fra le mie carte i fogli su cui avevo già scritto questa scena, parecchi mesi fa. Mi accorgo di aver usato le stesse parole (…). Questa impossibilità di dire le cose con parole diverse, questo definitivo congiungimento tra la realtà del passato e una singola immagine che esclude tutte le altre sono per me la prova che io ho realmente vissuto così l’evento.”
Ecco, nell’antropologico, nell’esperienza dell’umano, dare parola non significa spiegare la realtà, né raccontarla ad altri. Significa trovare la parola giusta. La parola giusta – quella che occorre prendere – non è la parola convincente, non è la parola corretta e non è la parola esteticamente bella. Noi oggi siamo impegnati su questi fronti: la parola convincente (quella del marketing), la parola corretta (quella grammaticalmente irreprensibile o, oggi ben più di frequente, politicamente corretta), la parola bella (quella che permette di essere all’altezza delle situazioni). Il «divino (e il demoniaco) si nasconde nei dettagli», però: la parola da prendere risponde certamente anche a tutto questo (è universale, è corretta, è dolce), ma è prima di tutto quella che ci permette di esistere: dare parola significa dare «prova di avere realmente vissuto». L’esistenza umana trova il suo principio di realtà nella parola, nella parola giusta, che è tipica del lavoro poetico e letterario, nella parola giusta che è lo strumento fondamentale della cultura. La letteratura, la poesia – ma a suo modo anche la teologia e la filosofia – sono le discipline della parola giusta, lo sono persino più delle discipline scientifiche, che hanno senza dubbio la questione del risultato giusto, ma che permettono di giungere al risultato per molte vie. La parola poetica, quella letteraria, la parola filosofica, sono invece la ricerca della parola giusta, insostituibile, esatta. Quella che non può essere cambiata, nemmeno semplificata, nemmeno ‘modernizzata’, nella sua esattezza.
In questo senso, l’intuizione di Milani mostra tutta la sua modernità non solo perché – come dicevo – egli non ha separato l’opera educativa da quella politica (difendere i suoi ragazzi era un tutt’uno con addestrarli a trovare le parole, perché «una parola imparata oggi è un calcio nel sedere in meno domani»), ma anche per avere intuito il nesso profondamente umano e spirituale tra l’esistenza e la parola. Milani ha intuito, a partire dai suoi ragazzi (e anche, certo, a partire dalla sua personale e dolorosa esperienza), che noi non esistiamo senza parola, non saremo mai certi di esistere e che, viceversa, prendere parola significa scoprire di esistere, uscire dall’anonimato che era, allora, la società contadina di Barbiana e che è, oggi, una società globale in cui le parole pronunciate si moltiplicano all’infinito, ma ugualmente rischiano di non essere mai in grado di farci esistere.
Certo, i problemi che Milani affrontava ci sono ancora: sono le periferie invisibili delle nostre città. Ma oggi non è più così chiaro chi sia la periferia e chi sia il centro. Anche nella nostra città: al di là della disparità economica, non è più così evidente che il centro sia il luogo in cui è possibile avere parola e la periferia sia invece lo spazio più silenzioso e dimenticato. L’invisibilità del cittadino di fronte ai grandi giochi che il potere fa sulla sua pelle non riguarda più solamente alcune periferie, riguarda tutti, nella percezione condivisa di essere poco più che pesci nel barile e nell’abbandono, soprattutto tra i giovani, dell’agone politico. Sembra, dunque, che ciascuno finisca per diventare la periferia di qualcun altro. Certo, ci sono ancora i grandi dimenticati del mondo, ma il percorso educativo fallisce la sua missione talvolta anche nei licei più blasonati della città. I dimenticati, gli inesistenti, gli invisibili di oggi sono molto più trasversali, l’evanescenza dell’esistenza si fa molto più diffusa, meno esplicita. Proprio come la dispersione scolastica: certo ne esiste una esplicita e misurabile, ma c’è anche un abbandono silenzioso dell’opera della parola. La società contemporanea sta fronteggiando una crisi del prendere parola, che si manifesta anche con reazioni scomposte (penso alla sfiducia nei confronti degli esperti, al disperato tentativo di prendere parola dei complottismi, alla crisi di fiducia nei funzionamenti dei corpi intermedi). Ciò pone l’opera del dare parola ancor più al centro nel farsi del legame sociale.
Ma c’è una crisi ancora più profonda, che mi sembra soggiacere a queste: nell’epoca che abitiamo, tutti quanti non siamo più così certi di avere vissuto. Non siamo così certi di aver vissuto la democrazia, per esempio, la pace, la convivenza umana, il sapere, il dialogo. Non siamo più così sicuri di aver creduto, sperato, amato. Questa consistenza dell’essere che viene meno di fronte ai fatti, la attendiamo di nuovo nei fatti, negli eventi: disperatamente siamo alla ricerca di un evento buono, che capovolga la situazione. Cerchiamo nei notiziari una buona notizia, ogni giorno: sulla guerra, sul cambiamento climatico, fino a qualche mese fa sulla pandemia. Come se fosse la realtà a dare certezza, come se un evento fosse indubitabilmente l’esistente. E invece la certezza di aver vissuto non sta nei fatti, ma nella parola, la parola giusta come quella che descrive la Ernaux, la parola che è la prova di aver veramente vissuto. La parola giusta serve a ritrovare la democrazia che abbiamo vissuto, la comunità che ci sembra di aver perduto, la storia che ci sembra sgretolarsi e che, invece, le parole sbagliate continuano a erodere. Parlare, fare cultura, oggi più che mai significa dare esistenza, dare consistenza al vissuto, soprattutto al vissuto buono da cui proveniamo.
Oggi più che mai, c’è bisogno di una cultura che dia parola, che insegni a operare la paziente ricerca della parola giusta. In due sensi, almeno. Anzitutto nella ricerca di quelle parole che, come dice la Ernaux ripeteremmo allo stesso modo, quelle parole che escludono le altre. Conoscere la letteratura, conoscere la poesia, ritornare ai classici dello spirito umano (ai miti greci, alla tradizione cristiana, alla grande stagione del romanzo…) significa trovare in essi la propria consistenza. Proprio in un tempo in cui la realtà non è più ovvia, «il sapere non è fatto per comprendere, è fatto per prendere posizione», come dice Foucault. Ma, mentre questo prendere posizione, nel dopoguerra (nei tempi di Milani e di Foucault), ha i tratti della lotta politica, che fa fronte al potere, oggi mi pare che abbia una forma ancora più profonda: prendere posizione significa accorgersi che c’è una relazione fondamentale con il mondo dalla quale veniamo, un debito nei confronti di chi, prima di noi, ha preso parola. Questo cambia lo scenario: ai tempi di Milani, forse, la figura dell’educatore era sufficiente a farsi garante di questo. Milani fu una figura immensa per i suoi ragazzi, nei suoi confronti essi portarono un infinito debito. Oggi, non è più sufficiente e forse non è nemmeno più sostenibile che questo debito si incarni in una sola persona. Alla Piccioletta Barca noi non proponiamo le nostre parole, ma cerchiamo di esibire costantemente il nostro stesso debito nei confronti della cultura che ci ha generati: nella ricerca della parola giusta, siamo ingaggiati insieme ai ragazzi, siamo i primi che ci impegniamo in un’opera faticosa di ricerca. Le parole di cui ci occupiamo – futuro, dialogo, sapere, desiderio… – sono difficili anche per noi da prendere e lo sono state anche per gli autori che incontriamo. Ma le parole che ci hanno lasciato sono giuste.
E poi c’è un secondo livello in cui Lorenzo Milani è stato maestro, perché il cammino del prendere la parola per Milani ha significato anche sempre invitare i ragazzi a un’opera comune di scrittura della parola. L’invenzione della scrittura collettiva, di cui Lettera a una professoressa è l’esempio più luminoso, rappresenta il lavoro comune su un testo, in cui lettura e scrittura sono inseparabili, la parola presa perché ricevuta e la parola presa perché messa in opera diventano una sola cosa. Mettere in opera le parole è il solo modo per proteggere i ragazzi dalla cultura borghese di salotto, dalla cultura dell’eccellenza e del merito. Prendere parola è inseparabile dall’esigenza che ciascuno faccia la sua parte, quella che nessun altro può fare anche solo spostando una virgola o proponendo un tema, un’osservazione.