
QUELLA TERRIBILE MACCHIA (dalla lettura di “Il fantasma di Canterville” di Oscar Wilde)

RENDICONTARE, CONTARE, RACCONTARE
TUTTI QUANTI VOGLION FARE IL JAZZ… (in collaborazione con Davide Parisi)

Energia pura è la musica jazz, di cui il maestro di chitarra del Centro di cultura musicale della Piccioletta barca è profondo e appassionato esecutore e conoscitore. Da poco conseguita la laurea triennale al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, Davide Parisi ha proposto ad accademici e ai musicisti uniti un intenso percorso lungo le strade di questo genere meraviglioso, dalle origini dell’uomo agli Anni ‘60.
Proprio le origini dell’uomo, non solo del genere, perché le frequenze di questa musica sembrano appartenere agli umani fin dall’alba dei tempi quando, dalla Rift Valley, centocinquanta mila anni fa circa, homo sapiens si è mosso per popolare tutto il mondo, accompagnando il suo cammino con primordiali espressioni musicali.
Davide raccoglie le suggestioni che la parola jazz rievoca nei ragazzi: ballo, dice Adrian; improvvisazione, suggerisce Ellen; e altri: sax, afro americani, canti, esibizioni concerti. Un po’ poco – a parte il fondamentale tema dell’improvvisazione – rispetto alla complessità del jazz e, d’altronde, quel poco che dai libri scolastici della scuola media continua a emergere.
È vero che le migrazioni sono parte fondamentale della storia dell’uomo, ma quelle che riguardano più da vicino il jazz ci riportano a uno dei momenti più bui della storia occidentale. A partire dal XV secolo, come tutti i ragazzi sanno, milioni di esseri umani sono stati trasportati in una triste triangolazione ai cui vertici stanno Europa, Africa e Americhe. Quando nel 1863 la schiavitù, in America, terminò, venti milioni di africani si trovarono ad abitare nel nuovo continente. Le loro malinconiche musiche, i canti consolatori, con i quali cercavano di alleviare le fatiche del duro e brutale lavoro, furono fondamentali al mantenimento della loro identità culturale e rappresentano certamente una delle radici del jazz che, però, con esse non si trova a coincidere, come semplificando raccontano appunto tanti libri di storia della musica. Davide sottolinea come l’uomo di colore non si sia improvvisamente svegliato jazzista: la complessità e la sofisticatezza teorica ed esecutiva del genere sono frutto di un lento intreccio di diverse fonti culturali. Ecco, dunque, il posto perfetto affinché ciò si realizzi: la città di New Orleans, un melting pot di cultura francese, spagnola e americana in cui i work songs e gli spiritual della comunità da poco liberata dal giogo della schiavitù si trasformano in qualcosa di inedito e, fino ad allora impensato. A New Orleans, all’inizio del Novecento, ci sono scuole di musica di tutti i generi, c’è persino un teatro dove si esegue l’Opera: qui gli artisti di colore incominciano a rielaborare la grande tradizione musicale europea, ad apprendere le leggi dell’armonia, ad arricchire il loro arsenale di strumenti.
Le parole di Davide, già introdotte da una sua virtuosa interpretazione, sono ora interrotte dall’ascolto di un brano del famoso compositore Morton, proprio di quegli anni. Un’energia mai sentita, suonata con strumenti della tradizione europea (tromba, basso tuba, contrabbasso, clarinetto, violino) insieme a un rinnovato gruppo di percussioni, antesignano della batteria moderna. La musica di Jelly Roll Morton è una vera e propria polifonia, studiata fino nei minimi dettagli, ma con un ritmo nuovo. Tipico di questo incontro è anche il Ragtime, che nasce come performance pianistica in cui la mano sinistra esegue ritmi classici della marcia mentre la destra, guardando più al futuro, incomincia a improvvisare. Work Songs e Spiritual sono stati un veicolo per mantenere la propria identità, ma ora si fondono con la musica classica, la marcia, la canzone. Persino ascoltando le registrazioni originali, rovinate e gracchianti, qualcuno di noi non può fare a meno di accennare a un movimento di danza perché – tornando alla celebre canzonetta degli Aristogatti, che dà titolo a questo testo – resister non si può al ritmo del Jazz.
Eccoci dunque alla parola, dall’origine misteriosa. Sembra che il termine Jazz (anzi Jass) sia apparso per la prima volta negli anni ’20 su un giornale come soprannome di un giocatore di baseball particolarmente energico, le cui imprese sportive venivano spesso accompagnate da canti ritmati. Il Jazz, infatti, perde la tristezza dei canti afroamericani del secolo precedente – che rimane, piuttosto, nel Blues – e si tinge di tutti i colori, compresi quelli festosi della musica caraibica. A New Orleans, tra gli anni ’10 e ’20, persino i funerali sono l’occasione per fare una musica piena di vita: le second line band, che accompagnavano i cortei funebri verso il cimitero, sono stati la fucina di moltissimi grandi artisti.
Sfatiamo l’ultimo mito: i musicisti Jazz non suonano d’istinto, ma studiano moltissimo, conoscono le leggi dell’armonia e, se si è tramandata la leggenda dal genio improvvisato, è soprattutto per un misto di scherno e di sprezzatura di molti virtuosi. Teddy Wilson, afroamericano, non poté accedere agli studi accademici; un giorno, però, in uno studio di registrazione, qualcuno lo sentì suonare un brano di Scarlatti: interrogato a riguardo, disse che la musica gli era nata al momento, fra il cuore e le mani. Anche l’improvvisazione, infatti, non è mai un’invenzione emotiva, ma l’intreccio, ogni volta inedito, di forme melodiche pazientemente apprese con ore e ore di studio tecnico, intessute con sapienza nell’armonia del brano.
Gli anni ’30 sono la decade dello Swing, un ritmo sincopato legato indissolubilmente al ballo. Sono anche gli anni delle Big band, vere e proprie orchestre con un organico ricchissimo, composto da decine di strumentisti. Improvvisare, in questo caso, significa seguire una struttura armonica e ritmica precisa e da tutti condivisa (un buon jazzista conosce a memoria centinaia di questi schemi, chiamati standard) e poi lasciare spazio, a turno, alle improvvisazioni strumentali.
Nelle Big band si formano infatti i jazzisti più virtuosi, grandi solisti come Charlie Parker che, negli anni ’40 rivoluziona ancora una volta il linguaggio jazzistico: gli standard diventano sempre più complessi e il virtuosismo è all’ordine del giorno: si suona velocissimo, una cascata di note, sperimentando nuove dissonanze cui pian piano l’orecchio degli ascoltatori incomincia ad abituarsi. Alleato di queste sonorità è il fatto che le musiche africane, la cui tonalità era stata formalizzata non con sette ma con cinque o sei note, avevano già in sé stesse intervalli del tutto inusuali al nostro orecchio.
Con il passare del tempo, anche la comunità bianca contribuisce alla crescita del genere. Il primo disco di Jazz, d’altra parte, fu registrato da musicisti bianchi: Freddie Keppard, afroamericano, si rifiutò di incidere su un vinile la libertà e l’imprevedibilità delle sue esecuzioni.
Persino l’Europa – a lungo impegnata nelle guerre del Novecento – ricomincia, con un po’ di ritardo, a dare il suo contributo. È la storia affascinante di Django Reinhardt, il musicista preferito di Davide, che campeggia nella sua camera da letto da quando è ragazzo. Di origine sinti, prima mandolinista, poi chitarrista, perso l’uso di due dita della mano sinistra in un incendio; diede allora vita a una tecnica tutta sua, per superare la menomazione. Con gli strumenti che aveva a disposizione, interpretando il Jazz americano, unì sonorità zigane (Gipsy jazz), usando persino il tempo in 3/4, tipico della famosa danza mitteleuropea: i walzer.
In tempi più vicini, il Jazz si è ancora modificato: liberandosi di ogni schema (standard, armonie, giri armonici), diventa Free jazz, quasi una collezione di ritmi e di rumori, in cui le note sono ormai libere da ogni catena. Difficile da ascoltare, almeno per noi, ma un vero godimento per Davide.
Il futuro di questa musica, come sempre, è in mano a chi, conservandone l’eredità, saprà dire la sua in modo nuovo e inaspettato.
A questo punto, però, è bene che le parole tacciano. Davide accende l’amplificatore e dalla sua chitarra semiacustica rossa travolge la sede della Piccioletta Barca in un vortice di pura energia.