
MILANO ILLUMINATA

I QUARANTA GIORNI DEL MUSSA DAGH — parte 2
DIRE E FARE

Lo storico latino Sallustio, nei capitoli iniziali dell’opera La congiura di Catilina, sostiene che raccontare a parole le azioni degli uomini sia compito inprimis arduum, terribilmente difficile, non meno difficile che compiere le azioni stesse, benché diversa rinomanza consegua chi opera e chi racconta.
È un’affermazione difficile da condividere di primo acchito, appare senz’altro un’esagerazione, eppure, soffermandocisi con animo sgombro da sospetti, svela la sua verità.
Questa mia breve riflessione ha l’ambizione di far emergere e sottolineare un legame cui troppo poco si pensa: il legame fra vita vissuta e linguaggio, fra fare e dire, fra azione e parola. Viene prima l’azione o la parola? Quale delle due ha più peso?
Facilmente – anche giustamente, da un certo punto di vista –, nella coscienza collettiva, l’azione è prevalente e deve prevalere sulla parola: si è tutti bravi a parole, si dice sempre, ma poi sono i fatti che contano veramente!
Ma è così vero che siamo tutti bravi a parole? Da tempo non possiamo più esserne convinti, oggi meno che mai. Oggi le parole sembrano essere merce da nulla, si usano per lo più in modo superficiale, non si cercano e non si scelgono in modo accurato, non si accorda loro il credito che meritano, raramente ci si assume la responsabilità del loro significato e le si inserisce nel loro giusto contesto, cercando per loro compagne adeguate; raramente le si pronuncia con serietà e prudenza, dando loro la giusta intonazione: merce da nulla, allora, con l’aggravante che possono fare davvero male, possono persino uccidere.
Ma se le si coltiva e le si cura con passione e attenzione, le parole sono il tesoro più prezioso di cui disponiamo, il passepartout al bene e al bello e al giusto: non a caso, il vocabolo parola è l’evoluzione del latino medievale parabola, popolarmente pronunciato paraula. Parabola, quelle del vangelo per intenderci, quelle con cui Gesù diceva le cose esattamente come stanno. Verbum in latino, logos in greco: due sostantivi che occupano colonne e colonne nei loro rispettivi dizionari, sostantivi che hanno a che fare con ben altro che con l’emissione di suoni. Scrive ancora Sallustio che tutte le facoltà umane – ogni nostra forza, dice il testo latino – risiedono tanto nell’animo quanto nel corpo: il secondo serve da strumento (servitium), il primo come guida (imperium addirittura è il vocabolo originale). “L’animo – prosegue – lo abbiamo in comune con gli dei, il corpo con tutti gli essere animati.”
La parola è il ponte che connette l’animo al corpo, il pensiero all’azione; la parola è la soglia fra il dentro e il fuori di noi, come insegnava Lorenzo Milani.
Viviamo tempi non luminosi, fatti di azioni non luminose e, ancor più forse, costellati di parole buie. Se oggi si grida facilmente all’emergenza di tutto, meno perentoriamente si sottolinea “l’emergenza parole”, la stessa che colpisce il clima e l’acqua.
Parole come acqua: scarse, inquinate, sprecate, mercificate, abusate… troppo poche
Racconto spesso ai ragazzi che a Roma, dire “mare” era come giocare con un caleidoscopio che coinvolgeva tutti i sensi: oltre a mare, il mare lo si chiamava pelagus, quando designava la sua estensione sconfinata o il moto agitato delle sue onde; altum, se si pensava al mare nero più profondo, pontus quando si alludeva ai suoi oscuri abissi; aequor, quando era calmo, salum, sentendo sulla pelle il suo sale e ancora oceanus e fretum…
L’azione del vedere sfumava in dieci diverse voci verbali, così come il provare paura si poteva rendere con sette differenti verbi, a seconda che il timore avesse una connotazione di viltà o debolezza (timeo), esprimesse una paura per un pericolo reale (metuo), fosse timore reverenziale (vereor), designasse una paura irrazionale (formido, reformido, extimesco), una paura istintiva e naturale (paveo) o, ancora, indicasse uno spavento da brividi e tremore (horreo).
E così, quando noi moderni ci troviamo a tradurre un brano latino, lo stesso di Sallustio citato poco fa, eccoci come bambini balbettanti, incapaci di rendere al meglio vocaboli pieni di fascino, se non facendo ricorso a infiniti giri di parole altre. Siamo più poveri, il nostro mare ha poche sfumature e le nostre paure sono tutte drammaticamente uguali e piatte.
Le nostre esistenze sono indubbiamente dominate dal fare: ce ne vantiamo, travestendo il nostro vanto di lamento. Facciamo, facciamo, facciamo, siamo sempre stanchi per questo gran fare che non lascia spazio al pensiero, alla lettura, alla riflessione. Al primato del fare corrisponde un dire che di quel fare è espressione: parole che descrivono, che indicano, parole appese alle cose e alle persone che costruiscono il nostro quotidiano, necessariamente e comprensibilmente ridotte di numero, quindi.
L’uomo fa e poi dice quello che fa e, poiché l’orizzonte in cui si muove di giorno in giorno una esistenza è normalmente piuttosto ristretto e ripetitivo, ristretto e ripetitivo è anche il numero di parole necessario a descriverlo. Parole docili e semplici, parole tecniche, parole gergali, parole di superficie, ripetute, sempre uguali. Sono parole che appiattiscono, non riservano sorprese, non rivelano nulla di nuovo, non creano, non sperimentano, ma semplicemente ripetono, prolungano quello che già è, il quotidiano, l’usuale.
Lo riscontriamo in modo parossistico nelle comunicazioni con i ragazzi, tipicamente quelle dei messaggi nei gruppi WhatsApp: invitati a commentare un evento, una lettura, un incontro, il primo ragazzo coraggioso debutta con un “bello!”, da cui scaturiscono a raffica, come fuochi d’artificio, altri venti “bello”: unica variante, il numero di “o”, il numero di “e”, il numero di punti esclamativi.
Ma non intendo, con queste righe, intonare il canto del rimpianto, né dell’accusa alla contemporaneità, né della fin troppo facile condanna del cellulare e dei social media come rei di furto di parole ai danni delle nuove generazioni (benché di questo sia convinta!), bensì tentare un piccolo restauro di quel ponte fra dentro e fuori, fra anima e corpo, che sembra vacillare sui piloni – le parole – deputati a sostenerlo.
Una riflessione: dal momento che un ponte si percorre in due direzioni, se le parole sono poche, misere, inquinate, aggressive, grette e becere perché dicono una vita piccola, misera, inquinata, aggressiva, gretta e becera allora deve poter essere vero anche il contrario e cioè che la miseria della vita e delle azioni dipenda dalla miseria delle parole.
Se così fosse, come personalmente credo che sia, potrebbe verificarsi un piccolo miracolo: l’utilizzo di vocaboli intensi e sofisticati, sapienti e illuminanti, precisi e sobri, rivelatori e consapevoli, potrebbe schiudere a una quotidianità altrettanto intensa, sapiente, capace di rompere la crosta superficiale dei giorni e degli eventi, rendendoli interiormente diversi l’uno dall’altro, unici pur nella loro ineluttabile ripetitività.
Cercare dieci varianti dell’aggettivo “bello” può davvero rendere l’esperienza del godimento della bellezza, molteplice e sorprendente e certamente assai più consapevole: c’è una bellezza dirompente e una bellezza delicata, una bellezza commovente, una bellezza inquietante, una bellezza ottenebrante, una eccitante e una riposante… in quanti modi si è belli?
Sono circa trecentomila le parole che la nostra lingua madre ci offre: una tale ricchezza testimonia il genio e e il patrimonio culturale del nostro Bel paese: parlare in modo bello, buono e giusto sarebbe una via per rendergli onore e per renderlo migliore, come i nostri grandi poeti e scrittori hanno saputo fare fin dalla nascita della lingua volgare.
Cerchiamo faticosamente di crescere alla scuola di Dante: chi più del sommo poeta è stato capace di plasmare la sua esistenza sulla parola? Quanti vocaboli, quanti lemmi stupefacenti gli hanno consentito di ricamare la sua esperienza oltremondana? L’aver coniato il verbo indiarsi, proprio dei Serafini, ha consentito a Dante stesso di giungere fino alla contemplazione di Dio, partecipando della sua intelligenza…
Le grandi opere letterarie, gli intramontabili classici, i libri scritti con maestria: ecco l’inesauribile miniera dove scoprire, imparare e attingere la parola giusta per elevarsi, elevare gli altri e corrispondere così alla promessa di bene che la vita quotidianamente pronuncia.
Raccontare a parole la vita forse non è più difficile che viverla, ma certamente dire parole belle, buone e giuste può fare la vita più bella, più buona, più giusta.