
INSEGNARE, DENTRO E FUORI LE MURA

25 APRILE
I QUARANTA GIORNi DEL MUSSA DAGH — parte 3

La forza dei deboli
Non chiudiamo mai i libri che leggiamo insieme prima di lasciare che essi interroghino noi e i ragazzi, convinti come siamo che leggere e lasciarsi leggere siano, in fondo, un’unica operazione, quando si sta di fronte a un classico. Farlo con I quaranta giorni del Mussa Dagh ha significato uscire dalla tragedia del popolo armeno e cercare nella nostra vita i piccoli drammi, ma anche i grandi eroismi di tutti i giorni. La resistenza del Mussa Dagh, nella sua unicità, è una delle incarnazioni della più sorprendente delle energie: quella che si sprigiona da uomini e donne che sono vittime dell’arroganza altrui. A ben vedere, infatti, non c’è nulla di sorprendente nella prepotenza di forti, nella violenza dei eserciti, nei muscoli dei grandi; ma la tenacia dei deboli, la resilienza degli ultimi: questo non cessa di interrogare e di far sperare anche noi, che grandi e grossi non siamo mai stati e che talvolta ci sentiamo davvero impotenti di fronte ai drammi del mondo. Piccioletta, la nostra comunità, lo è infatti fin dal nome: piccoli di fronte ai grandi temi che affrontiamo, piccoli di fronte alla sfida sempre più difficile di far crescere la cultura, piccoli di fronte alle grandi associazioni che hanno progetti ambiziosi ed esibiscono centinaia di utenti. Noi sappiamo del coraggio necessario a essere piccoli, a resistere alla tentazione di inseguire i grandi numeri, per poter dare ai ragazzi tutta la cura che meritano. Ma sappiamo anche di come, oggi, la cultura sia un argomento fragile – talvolta anche per i ragazzi e per i loro genitori – un po’ una perdente in un’epoca che preferisce guardare ad altro.
Proviamo, così, insieme ai nostri giovani soci, a guardarci attorno, nella storia più recente (personale o comune), alla ricerca di deboli che hanno mostrato una forza sorprendente. Elisabetta racconta di come, nella sua classe, ci siano alcuni ragazzi arroganti, di fronte ai quali rispondere non darebbe alcun beneficio: lei e alcune sue compagne hanno imparato la resistenza quotidiana di chi alza le spalle, prova a comportarsi in modo adulto e non risponde alle provocazioni; ci assicura che dopo un po’ il bullismo si fiacca, si stanca, perde ogni gusto e si mostra inutile e infantile. Paragona questa caparbietà alla resistenza silenziosa di tante donne che, nell’America Latina dei desaparecidos, sono scese in piazza senza una parola, diventando quasi il monumento silenzioso della sete di giustizia. Arianna ricorda Rosa Parks e il suo gesto apparentemente fragile e invece deflagrante di sedersi su un pullman nel posto dedicato ai bianchi: il suo arresto e la sua tenacia hanno contribuito a un grande e irreversibile cambiamento nell’America del dopoguerra. Proponiamo ai ragazzi un passaggio dello spettacolo di Marco Paolini, che racconta della tenace resistenza dei cittadini di Erto che, dopo aver perso tutto nella tragedia del Vajont, tornano caparbiamente a occupare le loro case, contro tutto e contro tutti, riprendendosi a forza il diritto di abitare la valle che lo Stato continuava a negare.
Anna non è molto d’accordo con la definizione che abbiamo proposto, ossia l’energia dei deboli: ritiene che ci sia un’energia più esplicita ed evidente (quella dei muscoli) e un’energia molto più interiore e nascosta, che emerge nel silenzio e nella parola. Ne approfittiamo per riflettere insieme sul fatto che non solo chi apparentemente è debole si rivela forte, ma spesso chi esibisce i muscoli è molto più fragile di quanto non si immagini. Matilde ci racconta di una lettura che ha concluso recentemente: Il cacciatore di aquiloni. È una storia terribile che si svolge in Afghanistan, un paese che da decenni, ormai, non conosce altro che guerra. Uno dei più feroci talebani, a un certo punto del libro, confessa al protagonista che, nonostante tutte le atrocità commesse, porta ancora nella memoria un’offesa ricevuta da bambino, come una ferita mai rimarginata. A volte la violenza è solo la risposta a ferite che non si vedono, ma che continuano a sanguinare. Invisibili ma dolorose, ci raccontano i ragazzi, sono anche le ferite che spesso ci si infligge vicendevolmente attraverso i social, i gruppi whatsapp, le frasi dette o non dette in una chat di classe. Talvolta noi adulti sottovalutiamo i nuovi media e ci dimentichiamo che anche questi luoghi hanno bisogno di una grammatica, di una consuetudine buona, di un accompagnamento: dai racconti dei nostri piccoli soci scopriamo che troppo spesso i grandi li lasciano soli a combattere battaglie mute ma cruente; ma ci commuove che l’Accademia sia un luogo in cui i ragazzi hanno il coraggio di raccontare episodi di cui, come ci confessa una di loro «non aveva mai parlato prima». La mente di noi adulti va immediatamente a Manzoni, che meglio di molti altri ha rappresentato la debolezza dei prepotenti e la forza dei miseri: leggiamo loro il passaggio immortale e toccante in cui Fra Cristoforo, affrontando don Rodrigo, pronuncia quel memorabile «verrà un giorno…», facendo appello alla giustizia divina, unilateralmente schierata con gli ultimi.
Il domandare si fa più impegnativo, però, quando ci chiediamo se sia sempre vero che chi subisce un male sia capace di trarre forza e coraggio, uscendone migliore. Arianna reagisce subito: non è sempre vero che sbagliando si impara, non c’è alcuna garanzia. È vero che essere messi in difficoltà il più delle volte ci permette di tirare fuori le nostre risorse più nascoste, ma non ci sono automatismi nella libertà umana. Elisabetta ricorda che la nascita del suo fratello più piccolo l’ha molto messa in crisi, ma le ha insegnato a non essere egoista e lei ne è uscita più adulta e più responsabile. Lo stesso racconta una ragazza sempre piena di gioia, che ha di recente affrontato prima la malattia di uno dei suoi genitori e poi la morte della nonna: sono stati momenti complicati e tutti noi le siamo stati vicini, ma è stata lei a trovare la forza per rispondere e per cambiare. Lora immediatamente ci riporta alla storia contemporanea: parla di Israele, che ha sofferto una grande persecuzione nel passato recente. Non ha paura di dire che, a suo avviso, il modo in cui oggi il governo israeliano sta affrontando la situazione a Gaza, non sembra mostrare la sapienza di chi ha sofferto e ha imparato a superare la violenza e l’arroganza. Sappiamo bene che la situazione è molto complessa, ma siamo convinti che i ragazzi sappiano leggere, a modo loro, anche le vicende intricate del nostro tempo e, soprattutto, riteniamo che debbano essere ascoltati. È vero: il male non rende buoni, non necessariamente; eppure ci sono momenti in cui il dolore subito apre a una nuova speranza, invece di rinchiudere tutti nella disperazione. Leggiamo un breve passaggio del Sergente nella neve, di Mario Rigoni Stern: durante la ritirata di Russia, distrutto dalla fatica, dal freddo e dalla fame, il protagonista entra in un’isba e si trova faccia a faccia non solo con i contadini che la abitano, ma anche con quattro soldati russi, con i fucili accanto. Nessuno imbraccia le armi, gli passano una ciotola di zuppa e condividono con lui, nemico, quel poco che hanno.
Riflettiamo anche sulla forza delle consuetudini, uno dei messaggi più sorprendenti che Werfel ci consegna: gli armeni resistono anche perché sono capaci di ricostruire una vita degna di questo nome, con tutto ciò che serve per abitare l’aspra montagna in modo umano.
Ci fa pensare, in ultimo, il destino del grande romanzo storico che abbiamo tra le mani e che stiamo per chiudere e riporre nella nostra libreria: fu censurato in Germania e in Turchia, ma passò clandestinamente per i ghetti ebraici e rappresentò per molti ebrei una sorta di manuale di resistenza. La censura ci fa subito pensare a Fahrenheit 451, che abbiamo letto insieme lo scorso anno. Anche i libri, così fragili da poter essere bruciati facilmente dai violenti, nascondono una forza immensa: la forza della cultura che, conclude Lorenzo, è la vera forza di un popolo.