
…QUANDO ALCUNA ANIMA MONDA SENTESI, Pg XX — XXI

MA NOI RIUSCIAMO A “SENTIRCI” MONDI?
IN-CONTRO TRA TITANI: VERDI SCRIVE PER MANZONI

La Messa da Requiem
Celebrando i centocinquant’anni della Messa da Requiem per l’anniversario della morte di Manzoni, 22 maggio 1874, l’orchestra e il coro del Teatro alla Scala, guidati dal direttore Riccardo Chailly e dal maestro del coro Alberto Malazzi, eseguono il capolavoro verdiano nella basilica di San Marco a Milano, sede designata dallo stesso Giuseppe Verdi per la prima assoluta da lui diretta. Ripercorriamo le tappe fondamentali della genesi dell’opera, nel clima della Milano di quegli anni.
Giuseppe Verdi era legato ad Alessandro Manzoni da un rapporto di profonda stima, di natura perlopiù politica e artistica, suscitata dalla lettura dell’opera dello scrittore milanese in età giovanile, che aveva indotto il compositore a musicare il Cinque Maggio e alcune parti dei cori dell’Adelchi e del Conte di Carmagnola. Dopo che i due s’incontrarono personalmente nel giugno 1868, grazie alla mediazione di Clara Maffei, ospite di uno dei principali salotti culturali della Milano ottocentesca, la stima nei confronti di Manzoni pareva essere mutata in una vera e propria venerazione, come si evince da una lettera che Verdi scrisse alla stessa Maffei nel luglio successivo: «Cosa potrei dirvi di Manzoni? Come spiegarvi la sensazione dolcissima, indefinibile, nuova, prodotta in me, alla presenza di quel Santo, come voi lo chiamate? Io mi gli sarei posto in ginocchio dinnanzi, se si potessero adorare gli uomini». Non stupisce, quindi, il desiderio di Verdi di onorare la scomparsa del poeta con una composizione originale, desiderio che comunicò all’editore milanese Giulio Ricordi il 2 giugno 1873: «[…] vorrei dimostrare quant’affetto e venerazione ho portato e porto a quel Grande che non è più, e che Milano ha tanto degnamente onorato. Vorrei mettere in musica una Messa da morto da eseguirsi l’anno venturo per l’anniversario della sua morte. La Messa avrebbe proporzioni piuttosto vaste, e oltre a una grande orchestra e un grande Coro, ci vorrebbero anche quattro o cinque cantanti principali». Ricordi recapitò la proposta al sindaco di Milano Giulio Belinzaghi, il quale si mostrò entusiasta e, il successivo 24 febbraio 1874, il consiglio municipale deliberò in via definitiva il finanziamento dell’opera e della sua rappresentazione, nonostante l’opposizione di carattere perlopiù anticlericale di parte del consiglio, da ascriversi nel più ampio clima di tensione tra Stato e Chiesa, dovuto all’annessione di Roma e alla sua designazione come capitale. Le proteste riguardavano, infatti, il carattere religioso che la celebrazione avrebbe assunto e il conseguente intervento dell’autorità ecclesiastica: come sede della commemorazione era stata scelta da Verdi, in virtù della sua acustica, la basilica di San Marco ed era stato necessario chiedere il permesso dell’arcivescovo di Milano affinché le donne del coro potessero partecipare all’esecuzione.
Occorre precisare, a questo punto, che l’intenzione verdiana di comporre un Requiem non deve essere ricondotta ex novo all’occasione della morte di Manzoni, ma va fatta risalire al momento della scomparsa di Gioacchino Rossini, nel 1868. Anche in queste circostanze, Verdi si ritrovò a scrivere all’editore Ricordi — Tito, padre di Giulio — informandolo del suo progetto per onorare la memoria di Rossini: tutti i «più illustri compositori italiani» avrebbero contribuito alla realizzazione di una Messa da Requiem, al solo scopo di celebrare il musicista scomparso e rinunciando in ogni modo a fare dell’opera oggetto di lucro. A causa di diverse complicazioni, essenzialmente legate a quest’ultimo punto, la Messa per Rossini, per quanto terminata, non fu rappresentata; Verdi, tuttavia, restò in possesso della parte che era stato incaricato di comporre, il movimento finale Libera me. È probabile, quindi, nonostante la generale mancanza di accordo degli studiosi a riguardo, che Verdi abbia sviluppato l’intera Messa a partire dalla parte già composta e che si sia messo al lavoro negli anni che intercorsero tra la morte di Rossini e quella di Manzoni; quest’ultimo avvenimento rappresentò, dunque, l’occasione propizia per completare e destinare il lavoro. Tale ricostruzione, in ogni caso, non deve macchiare di opportunismo l’operato del compositore, vista la sua evidente volontà di omaggiare lo scrittore, più volte ribadita nei suoi scambi epistolari di quegli anni.
Digiuno dalla composizione di musica sacra da molti anni, Verdi studiò con attenzione alcune opere che considerava validi esempi del genere, tra i quali il Requiem di Mozart e i due di Cherubini e la Grande Messe des morts di Berlioz. Dell’originale prospetto della Messa per Rossini, mantenne integralmente la scelta del testo e il ruolo fondamentale che avrebbero avuto i solisti, del tutto assenti o quantomeno secondari, invece, nei sopracitati Requiem cui si ispirò; anche l’organico orchestrale fu mantenuto identico, con alcune aggiunti in momenti particolari, a quello adottato per la stesura del Libera me.
La prima, diretta da Verdi stesso, si svolse a opera di un massiccio corpo esecutivo, che fra coro e orchestra contava più di duecento unità, insieme ai quattro solisti Teresina Stolz (soprano), Maria Waldmann (mezzosoprano), Giuseppe Capponi (tenore) e Ormondo Maini (basso), in una basilica di San Marco gremita di spettatori, accalcati presso la chiesa già dalle prime ore del mattino. L’immediato successo fu replicato in tre serate successive alla Scala e in una vera e propria tournée europea che toccò Parigi, Londra e Vienna. Negli anni successivi, il Requiem fu eseguito sempre più di frequente anche oltreoceano, per poi andare incontro a un notevole calo di diffusione, che lo vide rappresentato solo in occasioni di speciali commemorazioni, legate, in particolari, alle figure di Verdi e di Manzoni. In tempi più recenti, invece, l’opera è divenuta parte del repertorio di diversi direttori d’orchestra di fama internazionale, quali Claudio Abbado, Riccardo Muti e Daniel Barenboim.
La critica, e non solo quella italiana, accolse diffusamente il lavoro di Verdi in modo molto positivo, esaltando la capacità del compositore di porsi in modo appropriato all’interno di una tradizione ben radicata, che annoverava l’apporto di celebri nomi del passato, con un’opera in cui l’impianto religioso da rispettare necessariamente era molto ben coniugato a una serie di elementi innovativi, spesso ereditati dalla tradizione lirica italiana, di cui Verdi era, all’epoca, il più autorevole interprete. Una sola voce si levò particolarmente stonata rispetto all’accordo generale: il noto direttore austriaco Hans von Bülow, malvedendo il cimento del Verdi operista in musica sacra, definì il Requiem «un’opera in abito talare», criticandone inesorabilmente lo stile complessivo. L’esaltazione dell’opera da parte di altri grandi contemporanei, Brahms primo fra tutti, lo convinse, tuttavia, a disconoscere la propria critica diversi anni dopo, scusandosi personalmente con Verdi e ricevendo, in cambio, pubblico perdono. Da segnalare sono, infine, gli scritti di due critici musicali particolarmente noti e influenti, che lodarono il Requiem verdiano, l’uno il giorno stesso della prima esecuzione assoluta, l’altro alcuni anni dopo.
Filippo Filippi, appena uscito dalla basilica di San Marco, scrisse per l’edizione del mattino seguente del giornale La Perseveranza un resoconto a caldo, elogiando il sapiente utilizzo dell’elemento drammatico nella fusione con quello religioso, per la creazione di un carattere che, differente da quello dei Requiem tradizionali, si adattava perfettamente alle nuove esigenze estetiche dell’epoca. Il «tipo classico della musica religiosa», rinvenuto nel cantus firmus e nei suoi immediati derivati doveva essere destinato, secondo Filippi, alla memoria di una pratica passata, per poter lasciare spazio a nuove istanze musicali contemporanee, seppur all’interno dell’ampio genere della musica religiosa. Il critico esaltava, inoltre, la costante originalità compositiva di Verdi, esplicatasi soprattutto nel Dies irae, la sequenza liturgica dedicata al giorno del giudizio: l’effetto impressionante del fragoroso incipit del coro, che a piena voce annuncia la collera di Dio, andava incontro a un decrescendo di sonorità estremamente riuscito. Una nota positiva era anche riservata al finale Libera me, arricchito da notevoli intrecci contrappuntistici e caratterizzato da una fuga ben adattata alle esigenze complessive del brano.
Di parere discorde circa il finale, ma soddisfatto dell’opera nel complesso fu il critico austriaco Eduard Hanslick, che commentò il Requiem di Verdi nel 1879, alcuni anni dopo le trionfali rappresentazioni a Vienna dell’opera. Hanslick giudicava meno riuscite proprio le parti della composizione che più rispettavano le tradizioni liturgiche, in cui presenziavano passaggi contrappuntistici e fughe, a favore, invece, delle parti in cui il talento drammatico verdiano non era sottoposto a limitazioni. Risultava evidente, dalla resa complessiva, quale fosse il modo di scrittura più congeniale al compositore, così lontano dalla musica sacra di Bach o Händel, ma non per questo motivo meno valido: in linea con la riflessione di Filippi, Hanslick analizzava con realismo l’evolversi del rapporto tra le arti e la Chiesa, con quest’ultima sempre meno necessaria nel processo di riconoscimento e valorizzazione di opere e artisti. Ecco, dunque, il compositore svincolato dalla pesantezza del dogma tradizionale e in grado di presentare «una libera espressione artistica, che ha diritto d’esistere per la sua grandezza e bellezza, non per la sua utilità nei confronti della Chiesa». Alla luce di questa preziosa lettura, è possibile conciliare il tanto dibattuto anticlericalismo di Verdi con la scelta di voler onorare una delle personalità da lui ritenute più eminenti — culturalmente, politicamente, ma anche personalmente — con un’opera appartenente a un genere distante dal resto della sua produzione, ma che andava conquistandosi uno spazio suo proprio nel panorama musicale, al riparo da qualsiasi giudizio di natura religiosa. I detrattori del Requiem verdiano addussero a motivo principale delle loro critiche proprio lo spirito scarsamente liturgico del compositore, che gli avrebbe impedito, di fatto, di poter cogliere appieno l’essenza di un’opera come quella che stava scrivendo. Del resto, come afferma lo stesso Hanslick: «La religiosità soggettiva dell’artista deve essere lasciata fuori dal discorso: la critica non è inquisizione».