
LA RIVINCITA DEL MANOSCRITTO

GENESI DI UN CONFLITTO
L’ENERGIA E’ TUTTA NELL’ATTO

La dolcezza del passaggio dal mito al logos, la cui radice sta nella facoltà che l’umano ha sempre avuto – e sempre avrà – di interrogarsi sul senso delle cose, non deve farci dimenticare tutta la novità e la radicalità della svolta dei Greci verso la filosofia. Il Mito, come molte altre parole che incominciano con la M (mistero, mistica), implica la necessità di un silenzio, come una mano portata alla bocca in segno di stupore, ma anche come un invito a tacere, a non dire tutto, a non dire mai definitivamente. La filosofia sembra avanzare invece la pretesa che questa mano possa essere tolta, che si debba fare spazio alla parola, a un domandare radicale, universale, che non si arresti davanti a nulla e che tolga definitivamente il velo da ciò che è vero; non c’è nulla che debba restare nascosto: a‑letheia, svelamento, non-nascondimento è il nome filosofico della verità.
Il presupposto di questo gesto ardito si dischiude nella prima grande domanda filosofica: cosa sia l’essere. È in questo contesto che Parmenide azzarda un primo assioma fondamentale: l’essere coincide con il pensiero, pensare è essere. Senza questo fondamento, quasi un atto di fede nelle possibilità della ragione, forse la filosofia non avrebbe avuto il coraggio di attraversare così spudoratamente la storia. Pensare è essere, tutto ciò che è pensabile è, mentre ciò che non è, non è neppure pensabile.
Eppure, proprio questo semplice postulato crea fin dagli inizi i primi problemi, perché la realtà non è mai così precisa, così definita, così rassicurante come il pensiero. Due mele più due mele fanno quattro mele solo nell’astrazione del filosofo: sulla bilancia del fruttivendolo i conti non tornano mai, perché due mele perfettamente uguali non esistono da nessuna parte. Le cose fin qui possono anche farci sorridere, ma quando entriamo un po’ nel merito, la complessità cresce esponenzialmente. Socrate, per esempio, può ben dire che è sempre meglio essere giusti e onesti, ma la vita conferma ben raramente questa teoria: non solo ci sono molti giusti che soffrono e molti malvagi che gozzovigliano, ma in tantissime situazioni, capire da che parte stia la giustizia è davvero un’impresa.
Forse anche a partire da questo, il primo gigante della filosofia, Platone – un uomo giusto la cui rettitudine, a Siracusa, gli costò la schiavitù – incomincia a dubitare dell’affidabilità del reale e a chiedersi se, in fondo, la vita che viviamo non sia un universo di illusioni. Paradossalmente il filosofo, per spiegarlo, deve ricorrere a un esempio che assomiglia molto al mito: gli esseri umani sono come prigionieri incatenati in una caverna, costretti a vedere solo delle ombre e portati a ritenere che queste visioni fugaci siano la realtà. È il mondo della doxa, dell’illusione, dal quale solo il filosofo, spezzando le catene, può liberarsi; egli esce dalla caverna, vede la bellezza del mondo reale e – poiché chi conosce (episteme) la verità (aletheia) non può che diventare un uomo buono – cerca in tutti i modi di liberare tutti gli altri, anche a costo di non essere creduto.
Certo, in tempi come i nostri, non si fa fatica a concordare con il grande filosofo: siamo circondati da fake news, da incompetenza e da ignoranza, da uomini e donne che vivono immersi nella contemplazione della pura apparenza. Forse, come Platone, vorremmo tutti che un filosofo venisse a guidarci fuori dalle secche dell’opinione. Eppure, proprio perché abitiamo questa complessità, sappiamo anche molto bene che le cose non sono così facili. Gabriele, per esempio, reagisce immediatamente dicendo che anche chi non è filosofo, anche l’uomo o la donna che non hanno mai studiato, sanno molte cose: imparano facendo, sbagliando, magari, ma imparano. E Nicolle, memore dell’incontro con Socrate, avvenuto un paio di anni fa parlando di dialogo, con un’osservazione che avrebbe certamente commosso il maestro, è convinta che in qualche modo tutti sappiano almeno del proprio non sapere e che questa conoscenza non sia affatto ‘niente’. I ragazzi intravvedono uno dei paradossi del nostro tempo: nella tensione tra esperti e cittadini, non sempre le cose vanno come dovrebbero andare. Raccontiamo loro che in molti paesi c’è una tradizione del sapere (che è soprattutto un saper fare) che si è sedimentata nei secoli, senza che si possa mai veramente individuarne l’autore: basta pensare alle piante curative, ai rimedi della nonna, alle proprietà di alcuni vegetali; nozioni condivise per secoli anche nelle tribù più remote. In questi ultimi decenni, paradossalmente, è accaduto anche questo: che alcuni esperti andassero a studiare questi usi, li riportassero alle grandi case farmaceutiche occidentali, le quali brevettavano nuovi farmaci, rubando (letteralmente) il sapere ai non-esperti. Le cose, dunque, non sono mai così chiare.
Cosa tenere dell’immagine di Platone? Qualcuno suggerisce di imparare almeno questo: che la conoscenza è sempre un processo di liberazione, quello dall’opinione al pensiero, un processo che non si può mai arrestare e di fronte al quale non si può mai dire veramente: ecco, ora so.
Seguendo questa indicazione, anche la filosofia non ha mai cessato di crescere e ai problemi apparentemente irrisolvibili, ai para-dossi – ossia tutti quei momenti in cui scopriamo che ciò che ci sembra di sapere merita ancora di essere pensato – ha provato a rispondere rimanendo coraggiosamente in gioco; qualche volta, per farlo, ha dovuto assumere uno sguardo nuovo, un po’ laterale, un po’ obliquo rispetto a quello che sembrava condurre a una strada senza uscita.
Aristotele è uno dei tanti filosofi che ha provato a guardare le cose in un modo nuovo, superando coraggiosamente anche la sapienza immortale di Platone. Quello che egli vede per primo è che l’essere, in realtà, è sempre in un continuo movimento: ovunque ci si giri, le cose si trasformano, mutano. L’infante diventa adulto, il seme diventa pianta, la roccia diventa statua, eppure si direbbe che si tratta sempre della stessa cosa. Se essere è pensare, allora bisogna pensare anzitutto questo movimento e ciò che sta sotto (la sub-stantia), la sostanza. Così, Aristotele inizia il viaggio affascinante e seducente della metafisica, di ciò che sta oltre il visibile, oltre la superficie; invece di immaginare che la superficie sia solamente un’ombra, un’illusione, egli cerca quelle forze che agitano dall’interno la crosta dura e talvolta muta della realtà.
Ecco che, nel libro IX, Aristotele ci propone di pensare a tutto ciò che esiste non come un oggetto, ma come una tensione (un sinolo, dice in greco) tra la potenza e l’atto, la materia e la forma. Qualunque cosa, infatti, è sempre l’incontro tra queste due dimensioni. Una tazza è ceramica, ma è anche tazza, una statua è marmo, ma è soprattutto statua. Lorenzo, un ragazzo di terza media che si è recentemente unito al gruppo, è il primo a fare il nome di Michelangelo: mostriamo alcune sue opere, la Pietà Rondanini e i Prigioni, in cui si vede plasticamente la forma lottare contro la materia, la statua emergere dal marmo. Gli esempi si moltiplicano: davvero ogni cosa è un potenziale che si attua. Persino ciascuno di noi è già, in potenza, l’adulto che diventerà. Ogni volta che uno dei nostri piccoli soci alza la mano, noi più grandi assistiamo al miracolo: vediamo una scheggia di marmo volare via e la sua bellezza farsi, di parola in parola, sempre più nitida.
Forse è anche questo prodigio che permette ad Aristotele, in modo sempre più chiaro, di proclamare il primato dell’atto sulla potenza. Certo, a noi sembra di vedere prima la pietra e poi la statua, ma in verità è sempre l’atto, ossia il fine, a muovere l’esistente. Ciò che comanda è la forma: è la bellezza dell’opera di Michelangelo, d’altra parte, a rendere quel blocco di marmo unico e indimenticabile. Liberandosi dall’apparente ferrea legge della causa e dell’effetto, Aristotele suggerisce che la causa prima, il motore di tutto, non possa essere la materia, ma l’atto. Dio stesso, la potenza creatrice della vita, muove tutto il mondo come causa finale, non come causa efficiente. Come sommo bene e somma verità, attira l’essere a sé, non lo spinge da dietro.
Noi non siamo ancora grandi filosofi e non ci permetteremmo mai di giudicare, però questa immagine ci piace moltissimo e ci sembra anche che questo modo nuovo di guardare le cose – un po’ di traverso, rispetto a quello a cui siamo abituati – sia una grande promessa. Molti ragazzi stanno scegliendo la scuola superiore: e se a guidare la scelta, invece che le attitudini personali (impossibili da misurare, a questa età) fosse invece la promessa che sta racchiusa dentro di loro? Per esempio, discutendo insieme, ci sembra che un buon insegnante non possa essere solo come il filosofo di Platone, che muove i passi a partire dall’ignoranza dei suoi discepoli e dal suo sapere. Un buon insegnante, dice Gabriele, deve anche mostrare la passione che lo attira, per esempio. E, soprattutto, dovrebbe saper vedere nell’allievo che ha davanti l’adulto che potrà essere. Questo è il principio di ogni vera relazione e per farlo, dice Nicolle, un bravo insegnante deve trattare tutti senza preferenze, ma anche trattare ciascuno in un modo diverso. Ogni ragazzo è un blocco di marmo che nasconde una statua differente. Per essere un artista, dice Lorenzo, deve sapere riconoscere le potenzialità dei ragazzi che ha di fronte, cioè deve passare molto tempo ad ascoltarli, a osservarli, a vederli crescere. Ma ci vuole anche un’altra capacità, dice Gioia, ossia quella di far nascere nell’altro la voglia, la passione, di fargli intuire quel sommo bene verso il quale correre, per diventare ciò che è.
E, poiché il movimento e la crescita chiedono tempo e pazienza, siamo costretti a darci ancora una settimana di tempo, perché il nostro atto (energeia) filosofico, è davvero appena incominciato.