
L’ENERGIA E’ TUTTA NELL’ATTO

ATTO E POTENZA: CONFRONTO TRA NOI
GENESI DI UN CONFLITTO

In un tardo pomeriggio emiliano regna la pace assoluta: il sole, scendendo, tinge di arancione il cielo turchino, le colline verdi tutto all’intorno si adagiano mollemente sulla loro quiete, un lieve venticello smorza la calura estiva e porta a spasso profumo di erba e fiori; in un grande spiazzo, rivestito di mattonelle rosse, si raccoglie una gioiosa compagnia di giovani amici, dopo aver trascorso la giornata visitando ordinatamente e con intensa partecipazione i luoghi della strage di Monte Sole, guidata sapientemente da uno dei responsabili della Scuola di Pace: la giornata volge al termine e un gioco è convocato a chiudere il prezioso tempo insieme.
Sul piazzale vengono sparpagliate sedie in grande quantità, in piedi, rovesciate, singole o a mucchietti: i quattordici ragazzi, fra gli undici e i quattordici anni, attendono indicazioni per cominciare.
I miei soci adulti e io afferriamo voracemente le uniche seggioline non coinvolte e ci sediamo un po’ in disparte a osservare, all’ombra, lieti, almeno oggi, di godere del ruolo di semplici spettatori.
Un breve summit intorno a Stefano, che pacatamente istruisce i ragazzi, e il gioco ha inizio.
Noi, all’oscuro delle indicazioni, curiosi, osserviamo.
Parte una corsa forsennata alla conquista delle numerose sedie sparse ovunque, qualche urletto fende l’aria ma sono ancora le rondini ad allietare la scena con il loro canto serotino. Chi conquista una sedia la porta dalla propria parte e, in breve tempo, si delineano i ruoli: i ragazzi più possenti conquistano il bottino, gli altri lo custodiscono, e una terza parte sembra doverne fare qualcosa che però stenta a prendere forma.
I minuti passano, i toni si alzano, compare qualche spintone ma tutto è sotto controllo: Stefano con atteggiamento zeusino sovrintende la competizione.
Noi, divertiti, osserviamo.
Molte sedie sono a destra; i modi per conservarle sono quanto meno balzani: una ragazza, a mo’ di Maya desnuda, si distende su una fila di sedie affiancate l’una all’altra, un’altra ne stringe due con le gambe, due con le braccia, i piedi, la testa persino. Da sinistra, partono falangi che spodestano la giovane sentinella sdraiata, sottraendole sedie da sotto e facendola precipitare: le rondini se ne vanno a cantare un po’ più in là, seccate della impari competizione: le grida distruggono il silenzio, cominciano gli insulti (nel limite del consentito, ma tenaci). Lo spiazzo è diventato un campo di battaglia. A destra stenta a prendere forma un cerchio, a sinistra stenta a prendere forma un’alta pila: di sedie naturalmente. Un quarto d’ora è passato.
Noi, concentrati, osserviamo e cominciamo a commentare e a schierarci.
Due ragazzi, uno da una parte e uno dall’altra, prendono il sopravvento e si rivelano i leader fisici dei due schieramenti: ingaggiano una lotta personale, se le suonano di santa ragione e conquistano, con alterna fortuna, materiale per la propria parte. Una maglietta si strappa, vola una scarpa, una ragazza tirata per i capelli frana al suolo e mugugna. Siamo alla mezz’ora.
Noi, un po’ seccati, osserviamo e cominciamo a preoccuparci per l’eccesso di zelo di qualcuno.
David, un ragazzo del gruppo alla nostra destra, sembra essersi stufato: si rivolge ai compagni e dice di mollare il colpo: prendano pure tutte le sedie gli altri e pazienza, è un gioco in fondo! Parte l’ambasciata e i ragazzi alla nostra sinistra accumulano sedie e si cimentano nella costruzione di qualcosa.
Noi, sollevati, ci rilassiamo e cominciamo a distrarci e a parlare fra noi di altro.
Mentre a sinistra si costruisce una instabile torre in un clima decisamente più rilassato, a destra i soldati si sparpagliano tirando il fiato, quand’ecco che una ragazza – nota per il suo animo riservato che deflagra durante i giochi in una competitività incredibile–, si rassetta la nera capigliatura e, senza consultarsi con nessuno, scatta a sinistra urlando: «siete degli ingenui, era un trucco…»! e si accaparra una quantità inverosimile di sedie; al piccolo nerboruto della sua parte, ignaro che fosse un trucco (perché, quello di David, non era un trucco, in realtà!), non pare vero: in un secondo, riprende lo slancio e torna al corpo a corpo con il grandone della sinistra che, a questo punto, non ne vuole sapere di perdere. Siamo ai tre quarti d’ora.
Noi, scoraggiati, cominciamo a disperarci rispetto all’esito della guerra.
Una lotta senza esclusione di colpi coinvolge i più forti e tenaci di entrambe le parti, i feriti cominciano a sedersi a bordo campo; non solo le costruzioni che dovevano nascere, ma persino la conquista delle sedie è passata chiaramente in secondo piano: ora è in gioco l’onore dei campioni, pochi ormai, da una parte e dall’altra. Ognuno fa ricorso a tecniche note a lui solo, rispolverando lezioni di judo, karate, ju jitsu. Siamo all’ora.
Noi, annoiati, scuotiamo le nostre teste che pensano di sapere tutto.
Mentre volano botte da orbi, tutto intorno è mutato: temperatura infuocata, chiasso assordante, afrori poco piacevoli, disordine, squallore. Eppure Stefano, che di tanto in tanto viene interpellato dai ragazzi, usa pochissime parole e resta impassibile. Siamo all’ora e un quarto.
Noi, esausti, lasciamo discretamente la platea, andiamo e torniamo, pensiamo al programma del giorno dopo.
Non c’è soluzione al conflitto: cause di forza maggiore, l’ora di cena che si avvicina, costringono Stefano ad alzare un braccio in modo perentorio e inequivocabile e a interrompere il tutto. È il momento dell’analisi.
Noi, grati, torniamo ai nostri posti.
In brevissimo tempo, i ragazzi si calmano e si sistemano, i vestiti e le scarpe sparse ovunque vengono raccolti, le sedie riposte: lo spiazzo riacquista la sua calma, così come le colline verdi d’intorno e ricompaiono persino le rondini. I ragazzi si siedono per terra ordinatamente, si parlano pacatamente, ridono e scherzano. Stefano parla.
Noi, increduli, ascoltiamo:
«Cari ragazzi, le mie indicazioni erano chiare: siete due gruppi e qui ci sono delle sedie a disposizione di tutti; prendetele e costruite a destra un cerchio e a sinistra una torre. Quando volete interrompete voi l’attività».
Noi, basiti, spalanchiamo gli occhi e soprattutto la mente.
«Ho detto gruppi e voi immediatamente vi siete trasformati in squadre rivali; ho detto di prendere le sedie e voi immediatamente le avete conquistate come un bottino di guerra, strappandovele a vicenda; ho detto di costruire qualcosa e voi avete subito lasciato perdere, passando il tempo a lottare. Ho detto di decidere voi quando interrompere l’attività e ho dovuto farlo io». I ragazzi ammutoliscono.
Noi, colpiti, ammutoliamo con loro.
«Avreste potuto parlarvi pacatamente e mettervi d’accordo, dividervi le sedie — che erano in numero pari — e dedicarvi ognuno alla propria costruzione con calma: in dieci minuti avremmo avuto due costruzioni, utili a tutti per un nuovo gioco». Sorride Stefano con garbo e prosegue: «Proponiamo questa attività a gruppi di giovani e a gruppi di adulti; le cose vanno sempre così, sempre! E con gli adulti succedono cose molto peggiori. A loro il rancore non passa neanche alla fine del “gioco”».
Noi, scossi nel profondo, ci sentiamo diversi da prima.
E, a distanza di mesi, immersi ancora e sempre più nella barbarie e nella ferocia, con gli occhi colmi di immagini di sangue, di angoscia, di strazio, con le orecchie colme di pianto, di grida di terrore, di suppliche inascoltate, ripensiamo a quel pomeriggio a Monte Sole e, almeno, smettiamo di trasudare indignazione, di sputare sentenze, di elargire al mondo non richieste opinioni personali…