
GENESI DI UN CONFLITTO

QUELLA TERRIBILE MACCHIA (dalla lettura di “Il fantasma di Canterville” di Oscar Wilde)
ATTO E POTENZA: CONFRONTO TRA NOI

Il domandare, l’abbiamo scoperto all’inizio del nostro percorso, è la facoltà degli esseri umani che, distinguendoli dai bruti, genera le loro grandi elaborazioni: il mito, la filosofia, la scienza. Ma, se questo è vero, non può essere un’attività specialistica, solo per i filosofi o per gli scienziati o per gli esperti: ci riguarda tutti e tutti ci riguarda allo stesso modo. Per questo motivo, quando con i ragazzi riprendiamo criticamente le opere, intrecciamo sempre le loro voci con la nostra e con quella di ben più celebri pensatori (filosofi, scienziati, artisti…) che sui medesimi temi hanno preso la parola. Il tessuto che ne deriva mostra che, nonostante le differenze evidenti, ciascun interrogare è connesso dagli stessi fili, che talvolta scompaiono nella trama, talaltra riemergono in superficie.
Incominciamo insieme, allora, a interrogarci sulla differenza tra il mito e la filosofia; abbiamo imparato che nella Grecia antica si passò dal racconto alla riflessione, ma che quest’ultimo non rimpiazzò mai l’arte del racconto, la poesia, la creatività dei simboli.
Lorenzo, riprendendo una sua intuizione precedente, insiste nel dire che la filosofia non può occuparsi delle emozioni e dei sentimenti, i quali fanno invece da protagonisti nei grandi racconti. Nicolle è d’accordo, ma suggerisce anche che, sebbene noi studiamo che storicamente la filosofia abbia seguito i miti, non è sempre vero che il racconto preceda il pensiero: anche per narrare qualcosa si deve sempre avere in mente ciò che si intende comunicare, almeno a grandi linee; nel mito, insomma, c’è già nascosta in nuce la filosofia. Adrian, uno dei più piccoli, concorda: anche solo la scelta delle immagini e delle parole migliori, in una storia, chiede un pensiero, una capacità di discernere. Arianna precisa che, però, il racconto è sempre esposto al rischio dell’interpretazione, molto più della filosofia: parla per esperienza, ricordano le volte in cui, nonostante l’impegno e l’autentica dedizione, un suo tema non ha riscosso l’entusiasmo della professoressa di italiano.
Certo, la forza della filosofia è la sintesi: poche parole bastano per dire ciò che in un racconto richiederebbe un lungo cammino. La vicinanza tra il mito e la filosofia, ben intesa anche dai ragazzi, è stata messa a tema da una grande filosofa: Maria Zambrano. Nei suoi testi dedicati alla poesia, la Zambrano sostiene che la filosofia ha in qualche modo strappato di mano la grande domanda che fu il segreto della poesia: «lo stupore ancora muto, che si sveglia circondato dalle tenebre» (Luoghi della poesia, 1939). Talvolta, sostiene, la filosofia si è garantita il monopolio sul domandare, collocando la domanda al di là dell’inquietudine degli antichi (l’apeiron) nel mondo dell’essere di Parmenide, in cui tutto, a un primo sguardo, appare chiaro.
Forse è proprio questa pretesa di chiarezza che ha spinto i primi filosofi, soprattutto Platone, a distinguere tra apparenza e verità, tra doxa e episteme. Ci fermiamo a parlarne insieme, perché crediamo che su questo ci sia davvero molto da dire. Anzitutto proviamo a chiederci quando, nell’esperienza quotidiana, scopriamo la distanza tra l’apparenza e la verità, quanto spesso ci accade di scoprire che una nostra certezza si riveli alla fine infondata o persino sbagliata. Gli esempi dei ragazzi vengono soprattutto dalla scuola: Arianna ritorna sul suo intervento di prima: quante volta capita di pensare che un compito o un tema sia andato bene e invece, una volta corretto dalla professoressa, ritorna pieno di segni rossi! Lora, con lo sguardo di sguincio tipico della giovane filosofa, avverte: non è detto che l’apparenza sia dello studente e la verità del professore, qualche volta anche i professori potrebbero essere preda della doxa e non scorgere, in un tema, ciò che di buono è stato seminato dal suo giovane autore. Nicolle non potrebbe essere più d’accordo: il più delle volte proprio il voto è il luogo dell’apparenza e non della verità; non solo perché i professori possono sbagliare, ma soprattutto perché studiare solo per il voto significa seguire l’apparenza. Elisabetta corregge il tiro, però: non ti sarebbe d’aiuto un professore che fosse sempre e solamente dalla tua parte e, perdonando gli errori, ti riempisse di 10; ti danneggerebbe se non fosse in grado di mostrarti le tue mancanze e il voto, in fondo, serve esattamente a questo. Parliamo insieme di un liceo romano dove, ad experimentum, sono state avviate delle classi senza voti; non tutti i ragazzi sono così convinti che questa possa essere la strada giusta, per la verità: con tutti i limiti del caso, un giudizio sembra necessario a tutti. Un po’ per gioco riflettiamo insieme: a uno studente che prendesse, in quest’ordine, 3, 4, 5 e 7, probabilmente Platone darebbe un’insufficienza a fine quadrimestre; Aristotele invece, così interessato alla causa finale, assegnerebbe un bel 7; tutti allora vorrebbero lui come professore, forse dimenticando che se la sequenza dei voti fosse invertita, persino lo Stagirita sarebbe costretto a bocciare con un 3: questioni di punti di vista, che la filosofia, con tutto il suo sapere, non può mai cancellare.
Proprio per questo motivo occorre non smettere di discutere e confrontarsi, come non si è smesso di fare, nella lunga storia della cultura occidentale. Oscar Wilde, sbaragliando le carte, mette in bocca a uno dei personaggi di Il ritratto di Dorian Gray (l’abbiamo letto insieme, due anni fa) una frase che provoca molto: «solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze. Il vero mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile»; l’affermazione può forse scandalizzare, ma libera dal rischio (tutto filosofico) che i nostri ragionamenti ci allontanino sempre di più dalla vita di tutti i giorni. Hannah Arendt, per esempio, proprio leggendo criticamente il mito della caverna, afferma: «Appartiene agli aspetti sconcertanti dell’allegoria della caverna il fatto che Platone raffigura i suoi abitanti come congelati, incatenati davanti a uno schermo, senza alcuna possibilità di fare qualcosa o di comunicare tra loro»; nella vita reale i cittadini non sanno tutto, ma agiscono e parlano tra loro: questo sapere non è un niente e certo merita di non essere semplicemente ignorato, come fa il filosofo.
Terminiamo interrogandoci sulla dottrina aristotelica del sommo bene, del fine ultimo. Ci chiediamo se leggere l’esistenza in questo modo non sia davvero una svolta, nella vita. Pensiamo, per esempio, alla scelta della scuola superiore: non dovrebbe essere proprio il desiderio di fare qualcosa di grande il primo criterio della scelta? Forse i ragazzi possono riconoscere, nella loro vita, tutte le volte che qualcosa li ha attirati a sé. Matilde, per esempio, racconta che aveva sempre odiato leggere fino a quando non ha incontrato per la prima volta Harry Potter: presa dal desiderio di arrivare fino in fondo, non ha più smesso e, da quel giorno, ha guardato i libri in modo diverso. Nicolle usa un’immagine che ci convince tutti: quella della camminata in montagna; si fa sempre molta fatica a salire, ma quando incomincia ad apparire la vetta, allora il cuore trova conforto e consola muscoli e polmoni. Lo stesso è accaduto ad alcuni ragazzi di fronte alla scienza: scoprire ciò che essa può creare, vedere nella realtà i suoi funzionamenti all’opera, svela il valore di tante ore passate a studiare matematica. Certo, il fine ultimo di cui Aristotele parla non è mai solamente una meta, un traguardo, un’opera: è proprio questione del compimento di sé e del proprio mondo. Elisabetta, ormai al liceo, spiega ai ragazzi più giovani che a volte proprio l’ambiente umano, le amicizie con i compagni, sono in grado di illuminare questo fine ultimo: è qualcosa di molto più complesso della scuola, del lavoro, delle attività. È qualcosa di profondo e misterioso, proprio come la statua nel marmo di Michelangelo.