
EDIPO RE (parte 2)

PROMETEO (parte 1)
DALL’ASSISTENZA ALL’AMORE, ATTRAVERSO L’AFFETTO

Sono tante le opere letterarie che parlano di scuola, di insegnamento, del travagliato rapporto fra maestro e allievo, docente e discente. Avrei potuto partire da pagine memorabili e commoventi di autori classici o di grandi maestri del secolo passato. Scelgo invece di partire da un libro brutto, veramente brutto, ma certo un classico, anzi un “classicone”: Cuore di Edmondo De Amicis. Un classico perché classico non è sinonimo di bello e buono, né, del resto, soltanto il bello e il buono ammaestrano. Si impara imitando un modello ma anche prendendone le distanze, muovendosi sulla scia o sforzandosi di andare in direzione opposta. Come diciamo spesso ai bambini, classica è un’opera che, a distanza di molto tempo, ha ancora qualcosa da dire, è ancora attuale, interroga e smuove le coscienze e le menti: è chiaro, dunque, come tale opera esemplare, aggettivo che, di per sé, è vox media, possa essere esemplarmente buona o esemplarmente cattiva.
Cuore, noto più comunemente come Il libro cuore, è una di quelle opere che, solo a citarle, destano reazioni forti, generalmente di raccapriccio: le persone grandi come me e, ancor di più quelle più grandi, hanno tutte letto Cuore, generalmente una sola volta in giovane età, traendone un forte senso di nausea e mettendole quindi da parte per sempre. Che è uno dei torti più comuni ma anche più gravi che si possa fare a un libro. Dal canto mio, non avendo avuto ricordi terribili di una lettura infantile, ho ripreso in mano Cuore quando nel 2011, in occasione del 150 anniversario dell’Unità d’Italia, uscì da Rizzoli una bellissima collana della grande narrativa italiana dell’Ottocento. La copertina di Cuore era bellissima e io me lo lessi tutto d’un fiato. Sono grata a quella lettura perché collaborò in misura significativa alla creazione della Piccioletta Barca. A dieci anni di distanza, l’ho riletto e sono di nuovo grata a questa lettura che mi aiuta a riflettere insieme a voi su cosa non dovrebbe mai essere la Piccioletta barca, almeno nelle intenzioni dei soci fondatori.
L’edizione che ho appena letto ha una magnifica introduzione che vale tutto il libro, scritta da Domenico Starnone, ex insegnante di italiano, redattore di pagine culturali di diversi giornali, sceneggiatore. Ho letto l’introduzione prima e, cosa che faccio sempre e con molto più gusto, dopo la lettura e ho trovato la sua definizione del libro “una pattumiera tuttora interessante” folgorante e azzeccatissima.
Leggere il libro con il sollievo di pensare che si parli di un tempo antico, e che ormai le cose siano cambiate è un errore che faremo bene a correggere.
Perché il “sistema cuore” – di cui parla ancora Starnone — è attualissimo nella scuola, ma ancora di più nel mondo del volontariato, che è ciò di cui mi interessa parlare ora.
La vicenda è nota: siamo a Torino, anno scolastico 1881–1882: Enrico Bottini frequenta la terza elementare e tiene un diario dai primi agli ultimi giorni di scuola. Se trovassi un bambino che in terza scrivesse così – forma e contenuto – ne avrei paura oppure lo candiderei al Nobel. Ma il trucco c’è: il diario tramandato ai posteri è stato rivisto dallo stesso Enrico, quattro anni dopo durante il ginnasio (lo stupore e lo spavento rimarrebbero comunque i medesimi!) e, soprattutto, il povero diario è regolarmente preda di mani altrui: quelle morigerate della sorella maggiore Silvia che interviene solo una volta, dopo essere stata maltrattata dal fratellino, quelle penose della madre e quelle terribilmente massicce, tentacolari e odiose del padre, mitico Ingegner Alberto Bottini che pontifica su tutto e su tutti, con l’evidente obiettivo di generare nel figliolino sovrumani sensi di colpa! Figliolino che, tutto sommato, a parte l’inverosimile profondità e perfezione della scrittura, vive emozioni e sensazioni abbastanza in linea con gli studenti normali: poca voglia di andare a scuola e studiare, ammirazione idolatrica per qualche compagno, antipatia e repulsione per qualche altro. Sono cinquantaquattro maschi in classe: molti di loro, gli eccezionali nel bene e nel male, sono magistralmente inquadrati, incastrati per meglio dire, in ritratti dalle tinte forti e indelebili: Crossi, svantaggiato, capelli rossi, un braccino morto, padre assassino in galera; Franti, famigerato dileggiatore e perso in partenza; Nelli, il gobbino; Garrone di anni 14 perché malato per due anni, buonone, grande, con testa grossa, difensore dei deboli, figlio di un macchinista; Stardi piccolo e senza collo, un grugnone che non parla con nessuno ma riesce bene per la sua tenacia; Coretti, sempre allegro, figlio di un rivenditore di legna ex soldato con tre medaglie; il muratorino, figlio naturalmente di un muratore, la cui straordinaria abilità è fare il muso di lepre; Nobis, signorino molto superbo; Precossi, con la giacchetta troppo lunga, figlio del fabbro ferraio che le prende dal padre; e il più bello di tutti, quello che ha più ingegno, che sarà il primo della classe Derossi, biondo e riccioluto. Nelle primissime pagine conosciamo i compagni di Enrico: fisico, indole, classe sociale. Enrico sicuramente ha imparato dai suoi genitori a codificare le persone, se consideriamo che tutti gli insegnamenti dei genitori, tutti, concernono il comportamento consono nell’approccio a determinate categorie di persone: e qui veniamo al cuore del “sistema cuore”, al vero cuore del problema, secondo me!
Una sera la mamma scrive:
Io t’osservavo dalla finestra, questa s’era, quando tornavi da casa del maestro: tu hai urtato una donna. Bada meglio a come cammini per la strada. Anche lì ci sono dei doveri. […] Tutte le volte che incontri un vecchio cadente, un povero, una donna con un bambino in braccio, uno storpio con le stampelle, un uomo curvo sotto un carico, una famiglia vestita a lutto cedile il passo con rispetto: noi dobbiamo rispettare la vecchiaia, la miseria, l’amore materno, l’infermità, la fatica, la morte. Guarda con reverenza tutti quei ragazzi degli istituti che passano a due a due: i ciechi, i muti, i rachitici, gli orfanelli, i fanciulli abbandonati: pensa che la sventura e la carità umana che passa. Fingi sempre di non vedere chi ha una deformità ripugnante o ridicola.
Ecco: ripugnante è esattamente la sensazione che io provo leggendo questo elenco e questo sermone materno!
Si tratta, a ben guardare, di una classificazione scientifica del dolore o, meglio, delle disgrazie cui è — ovviamente — degno porre attenzione. Ho verificato che la classificazione “essere umano” passa attraverso 23 gradini che vanno dal dominio: eukaryota; regno: animalia; sottoregno; superphylum; phylum: chordata; subphylum: verterbratae; infraphylum; superclasse; classe: mammalia; sottoclasse; infraclasse; superordine; ordine: primates; sottordine; infraordine; parvordine; superfamiglia, famiglia, sottofamiglia, tribù: hominini; sottotribù: hominina; genere: homo; specie: homo sapiens. Non contenti di tanto dettaglio, noi uomini aggiungiamo un ulteriore gradino che chiamerei marchio: rachitico, orfanello, gobbetto, disabile, povero, gay, profugo, nero, musulmano, cristiano! E, a seconda dei casi, condiamo tutto con un NOI o più spesso con un bel LORO, ci chiudiamo dentro e chiudiamo fuori. E siamo tranquilli.
Quanto lontani siamo dal nostro “homo sum, nihil humani a me alienum puto”?
Una delle fatiche più grandi nel lento processo di creazione della PB è stata l’individuazione del target, dei destinatari. Ancora e sempre ci viene posta la domanda: a chi vi rivolgete? Dovete stringere, definire, specificare! Abbiamo cambiato mille volte idea in questi anni e io muoio sempre dalla voglia di rispondere: a tutti i bambini di buona volontà! Ma non si può, non è valido…bambini desiderosi di ascoltare: ci voleva Dante!
Nel “sistema cuore” le persone si classificano ma, attenzione: la classificazione non è neutra. Guardare gli altri e metterli in uno scomparto implica inevitabilmente collocarsi su un piano diverso. E questo ancora ancora potrebbe starci, ma il problema è che, guarda caso, ci si colloca sempre sul gradino dei buoni, di quelli che stanno dalla parte giusta: e qui, mi dispiace, crolla tutto il senso del volontariato! Perché i buoni sono pericolosi: chi si autoconsidera buono, automaticamente si sente a posto e chi si sente a posto smette di farsi domande e chi smette di farsi domande non solo è perduto, ma è anche il vero morbo della società!
La mamma di Enrico lo porta in visita all’asilo e all’istituto dei bambini rachitici perché è buona: entrambe le volte va di persona a raccomandare prima una sorellina di Precossi e poi il figlio del portinaio. La mamma di Enrico quindi è buona e si occupa degli altri, così come buono è l’ingegner Bottini.
Nel libro si contano a decine i passi in cui al povero Enrico viene ricordato come sia bene tacere e fingere di fronte alla difficoltà altrui, salvo poi che, in famiglia, Nelli viene regolarmente chiamato gobbino e, quando va in casa Bottini a giocare, ci si premura di togliere il quadro raffigurante Rigoletto, perché non urti la sensibilità del ragazzino. Così come, in visita all’Istituto dei rachitici, Enrico viene lasciato dalla madre in portineria per non mettere davanti a quei disgraziati un ragazzo sano e robusto. Sano sì, ma sfortunato a suo modo anche lui per i genitori che si è ritrovato: suo padre più volte gli chiede di donare cose sue ai bambini poveri: il suo trenino per esempio, chissà quale dispiacere provocando a quel povero figlio costretto!
In uno dei passi più tristemente celebri del romanzo, il piccolo Enrico confida al diario la sua tristezza al pensiero che non rivedrà più molti dei suoi compagni: con alcuni certo proseguirà gli studi, ma gli altri no, non li rivedrà più. Il padre intercetta il pensiero e ribatte: “Perché Enrico, mai più? Questo dipenderà da te. Finita la quarta, tu andrai al ginnasio ed essi faranno gli operai…”.
Ecco che il buon ingegner Bottini ha già deciso tutto: non solo per suo figlio, ma pure per i figli degli altri. E il buon Garrone, figlio di un ferroviere fra quarant’anni non potrà che essere ferroviere a sua volta, mentre Enrico, non solo certamente eguaglierà il padre, ma incrociando le dita, lo potrà superare, diventando addirittura senatore del regno! È buono il padre Bottini, predica l’umiltà e la fratellanza, ma intanto ha già inchiodato Garrone ai binari della ferrovia perché a lui no, non è concesso un salto di grado.
Era così nel 1880: la scuola non si occupava minimamente di sconfiggere gli effetti delle disuguaglianze sociali e naturali. Potremmo tutti tirare un bel sospiro di sollievo e dire che ora le cose non sono più cosi, ma diremmo il falso. “Vera e intramontata– dice Starnone nella sua introduzione – è la subalternità degli insegnanti nei confronti delle gerarchie sociali ed economiche di cui gli scolari sono portatori.”
Potremmo concludere dicendo che la PB è qui per questo: per fare sì che Garrone vada all’università e diventi ingegnere come Bottini. Ed è vero: senz’altro siamo qui per questo, per interrompere l’odioso automatismo che lega incondizionatamente la scelta del percorso di studi superiore alla classe sociale di appartenenza. Ma spingiamoci un passo più avanti: il nostro lavoro sarebbe veramente buono e giusto se l’operazione riuscisse in questo senso, che le è naturale, ma anche in senso inverso. Noi potremmo spostare la PB in corso Magenta e raccogliere nelle sue mura i poveri alunni del San Carlo, poveri davvero, magari molto più di questi nostri piccoli. Poveri perché tristi, incapaci di vedere il bello, oppressi da madri barbie e da padri milionari assenti, poveri perché hanno tutto e non sanno desiderare: anche i poveri ricchi sono inchiodati a un futuro di oro e la PB, operando con la stessa passione in nome del vero e della cultura, avrebbe successo se portasse Garrone alla facoltà di ingegneria e Derossi o il mio triste alunno del Collegio San Carlo a rinunciare al posto nell’azienda del papà, per seguire il proprio cuore e fare, magari, il maestro elementare, l’inviato speciale nei luoghi di guerra, il missionario fra gli ultimi. Non amiamo i poveri bambini della periferia più dei poveri bambini del centro: non amiamo i disabili, i rachitici, i profughi, i così e i cosà… amiamo gli uomini in quanto esseri umani a noi identici, tutti ugualmente degni di avere la nostra attenzione, il nostro affetto, la nostra cura o, viceversa, di godere serenamente della nostra antipatia, della nostra disistima, del nostro disinteresse.
E quando li avremo amati non sentiamoci a posto, non sentiamoci buoni, sentiamoci semplicemente esseri umani a loro identici e degni di questo nome.