
VARIAZIONE SU UNO O L’ALTRO DI POCHI TEMI…

VOGLIO SUONARE LA MIA VITA…
LA MAGIA DEL CORO GRECO

Che il primo significato della parola greca χορός (choros) sia “danza eseguita insieme” e non semplicemente “coro” è una piccola e ignota gemma culturale che ci aiuta a viaggiare nel tempo, dalle esotiche danzatrici di Rodin di inizi Novecento alla grande Grecia di Pericle del V secolo a.C., cornucopia di doni straordinari per l’umanità tutta, fra cui un posto d’onore spetta certamente al teatro. Proprio in questi giorni, alcuni giovani pionieri dell’Accademia cominciano le prove di uno spettacolo teatrale che andrà in scena a metà marzo e, come è nostro stile, non li “mandiamo nel mondo” senza avere raccontato loro le origini, senza aver riflettuto con loro sulla valenza e il senso di un fenomeno culturale fondamentale come il teatro.
Tutte le parole del teatro sono greche: teatro stesso è semplice translitterazione di ϑέατρον (zheatron) dal verbo ϑεάομαι (theàomai), guardo, sono spettatore e indica gli imponenti spalti di pietra costruiti sfruttando i pendii naturali delle colline, destinati al pubblico; ὀρχήστρα (orchestra) è sostantivo del verbo ὀρχέομαι (orchéomai), danzo ed è lo spazio destinato ad accogliere la rappresentazione; σκηνή (skené) è la scena, alle origini una tenda dietro la quale gli attori si cambiavano maschere e costumi e si preparavano a entrare. Lo spazio dell’orchestra accoglieva gli attori e il coro. La lingua italiana ha abbandonato il termine greco che designa l’attore, preferendogli il latino actor: ὐποκριτές (upokrites) era infatti la parola greca il recitante e questa è esattamente l’etimologia del nostro aggettivo ipocrita: chi si mostra agli altri diverso dalla sua vera essenza.
E veniamo al protagonista del nostro incontro: il coro. Abbiamo detto che il termine choròs significa danza, una danza non individuale, unita alle voci, unita alla musica. Coro era tutto questo: grandiosa energia del corpo, dei corpi che si muovevano e recitavano e cantavano all’unisono, suscitando emozioni che ancora oggi, nelle rappresentazioni moderne, riescono a commuovere e ad avvolgere il pubblico in una magia che rimane a lungo sopra e sotto la pelle.
È sempre molto bello e importante parlare ai ragazzi di “parole”: ne conoscono così poche! Ne conoscono poche, ne usano poche e, di quelle poche che usano, normalmente non conoscono mai a fondo il significato. Raccontandoglielo, si assiste ogni volta a una commovente trasfigurazione dei volti: occhi sgranati che diventano grandi e luminosi come stelle, labbra aperte in sorrisi soddisfatti, espressioni di stupore che diventano subito orgoglio di sapere una cosa in più…
E passiamo al racconto: in Grecia, il teatro era ben altro rispetto a oggi: è un’esperienza totalizzante e completa per l’uomo. È, al tempo stesso, un fenomeno religioso, politico, agonistico: è un rito, un’assemblea e una gara: quando c’è il teatro, non c’è niente altro.
Siamo nel V secolo, la Grecia è uscita dalle Guerre persiane che, per l’unica volta nella storia ellenica, ha unito le diverse etnie e le grandi città-stato contro un nemico comune, molto più grande, molto più potente: Atene ha un ruolo fondamentale nelle storiche vittorie e diventa potentissima; tutte le città greche le si inchinano, le più piccole, che non si possono difendere da sole, versano i loro soldi nel tesoro della città attica che, nei successivi cinquant’anni, diventa una sorta di mirabilandia. La Penteconteteia è il periodo di pace compreso fra il 478 e il 431 a.C., in cui accade un vero miracolo culturale: con l’arte, con la filosofia, con la scienza, con l’architettura, con la letteratura. E con il teatro.
Il cittadino ateniese va a teatro due volte all’anno, durante le Feste Lenee che durano tre giorni, a lui solo riservate e, insieme a tutti gli altri Greci, durante le Grandi Dionisie, che durano una intera settimana a cavallo fra marzo e aprile e si svolgono in onore di Dioniso, dio del vino e del delirio mistico. Nessuno lavora, si entra a teatro la mattina e se ne esce la sera; chi può paga un biglietto, chi non può permetterselo riceve il biglietto dallo stato.
Lo spettacolo teatrale prima di tutto è un rito e immerge in una esperienza religiosa: a ricordare questa sua natura, è l’altare di Dioniso al centro dell’orchestra. Tragedia e commedia, fin nella loro etimologia, sono indissolubilmente legate al capro (tragos) e al corteo (komos), rispettivamente l’animale e il seguito sacri al potente dio.
In secondo luogo, è un evento politico, un fondamentale momento di vita collettiva.
È accaduto che il piccolo ha battuto il grande e questo evento ha creato una profondissima relazione tra l’individuo e la sua comunità: relazione che, nel teatro, è rappresentata dal rapporto tra l’eroe e il coro.
È, infine, un fenomeno agonistico, una gara. I Greci sono un popolo endemicamente competitivo e questa sua natura trova sfogo nella competizione e nel “tifo” per l’uno o l’altro poeta.
Le storie rappresentate le conoscono tutti, tutti i contenuti della tragedia greca sono già noti: sono i grandi miti e i grandi cicli epici: non è importante sapere come vada a finire la storia, ma è importante partecipare al meccanismo e all’evoluzione della vicenda. Il pubblico greco è committente e spettatore insieme.
L’eroe della tragedia, come quello della commedia, è un individuo solo che si relaziona con la sua comunità. Di fronte all’eroe, c’è sempre il coro che ha funzione pratica e, insieme, altamente simbolica. Nella pratica, il coro racconta antefatti e sviluppi della trama e della rappresentazione, ma è a lui che spetta, soprattutto, l’altissimo compito di riflettere sui temi universali e sul destino dell’eroe.
Durante l’apoteosi della tragedia greca, i grandi poeti sono Eschilo, Sofocle, Euripide. La connessione fra coro e vita comunitaria è talmente alta, che è possibile evidenziare una evoluzione parallela fra gli sviluppi della vita cittadina e il ruolo del coro nella tragedia.
Nelle opere di Eschilo, il più anziano dei tragediografi, il quale prese attivamente parte alle Guerre persiane, il coro e l’eroe soffrono insieme lo stesso destino, esattamente come il cittadino è totalmente immerso nella vita della sua città: il coro piange la sciagura dell’eroe, come traspare, per esempio, dai versi delle Oceanine, pietose figlie di Oceano, sul povero Prometeo incatenato alla roccia, tragedia che i ragazzi hanno conosciuto da vicino lo scorso anno:
“Non a sorde, Prometeo, gridasti, acuto, l’invito: eccomi, snello è il mio passo.
Abbandono il cocchio saettante e l’aria, intatto varco d’alati: tocco questa terra aspra nell’ansia d’udire, fino in fondo, i tuoi mali” (278–284).
O ancora: “Singhiozzo sulla tua devastata vicenda, Prometeo. Spiove dagli occhi languore di pianto — mio dono votivo — a rigare la gota già fradicia, da liquide fonti” (397–400).
Nel corso degli anni però Pericle diventa molto potente, la sua forza travalica il giusto e incrina il legame tra individuo e comunità. La tragedia è talmente connessa con la vicenda del popolo, che questa incrinatura compare nelle tragedie di Sofocle, dove compare già un certo distacco tra eroe e coro. Il coro formato da quindici coreuti, tre in più rispetto al coro eschileo, riflette sul destino dell’eroe ma non piange più con lui. C’è una tragedia che i ragazzi conoscono bene: Edipo re, rappresentata nel 430 a.C., circa trent’anni dopo il Prometeo eschileo. Ne leggiamo un passaggio del coro, che rappresenta il popolo tebano colpito dalla pestilenza:
“Ahimè! Sventure innumerevoli pesano su me. Tutto il popolo giace nel morbo: consiglio non c’è che scampo ne dia. Non maturano i frutti dell’inclita terra: dai lagni e le doglie del parto le donne non sorgono: vedere puoi l’uno sull’altro, veloce come ala d’augello, più ratto che vampa di folgore, (il popolo) lanciarsi alla spiaggia del dio d’occidente. E innumerevoli turbe periscono: al suolo, senza preghiera né gemito, giacenti, il contagio diffondono: le spose e le madri canute s’appressano all’are, chi qua, chi là, supplicando il riscatto dei lutti funesti: corrusca il Peana, ed il querulo lamento di pianti concordi”. (168–177).
Con Euripide, terzo poeta in ordine cronologico, i cori sono bellissimi ma diventano pura poesia e la loro potenza consiste nell’affermare la supremazia della musica e dell’arte sul dolore e la frustrazione del singolo: è catarsi pura. Così appare nel coro della tragedia Le baccanti del 407 a.C. in cui le invasate sacerdotesse del dio con danze frenetiche, cantano:
“Oh felice, chi, agli dei caro, assiste ai loro sacri misteri, e il suo vivere santifica inebriando l’anima nel tíaso, per i monti, in estro bacchico, rendendo puro sé nei riti mistici, e della Madre Rea celebra le orge solenni, ed alto in aria il tirso squassa, e servo di Diòniso si fa, cinto il crine d‘alloro! Mènadi via, su via, correte, Mènadi, riconducete voi Bromio Diòniso, Nume, e figlio di Nume, il Nume Bromio, dai monti frigi all’ampie vie dell’Ellade”.
Il coro emette una voce sola e parla in prima persona perché è una entità unica e indivisibile; i coreuti sono vestiti tutti uguali e danzano e cantano con gli stessi movimenti, con precisione millimetrica.
Ora tocca ai ragazzi: nello spettacolo sulla tragedia del Vajont, cui prenderanno parte il 16 marzo, unendosi alla “Improvvisa compagnia” di Novara, sono chiamati, ma ancora non lo sanno, a dare voce e movimento proprio a un coro. Li inviamo alla prima prova, certi che abbiano compreso appieno cosa significhi questa loro partecipazione e certi che sapranno effondere sul palco tutta l’energia dei loro giovani corpi e delle loro brillanti menti!