
DIRE E FARE

INSEGNARE, DENTRO E FUORI LE MURA
I QUARANTA GIORNI DEL MUSSA DAGH — parte 2

«All’inesplicabile in noi e sopra di noi»
È questa la “bella e profonda iscrizione” incisa sulla moneta d’oro di origine ellenica che Gabriele Bagradiàn, nelle prime pagine del monumentale romanzo di Werfel, riceve in dono dalle mani del saggio amico di suo nonno Rifaàt Berekèt. Giunto A Yoghonoluk, nella sontuosa casa avita, Gabriele per la terza volta visita il vecchio musulmano. Dentro di lui ha appena deciso di tentare la disperata impresa di traferire il popolo sul Mussa Dagh: non lui ha deciso, in realtà, “ma una forza oscura, che lo sollevò dal giaciglio, decise la lotta”.
E’ suggestivo pensare che l’autore dei Quaranta giorni del Mussa Dagh, il primo grande narratore del genocidio degli Armeni, fosse un ebreo di Praga. Quando – di ritorno da un viaggio in Medio Oriente durante il quale aveva visto la miseria dei sopravvissuti allo sterminio nel volto di alcuni poverissimi bambini armeni – decise di mettere mano al suo libro, non immaginava che la stessa barbarie si sarebbe abbattuta sul suo popolo. Werfel era anzitutto interessato a riportare alla luce una storia che rischiava di andare perduta e lo fece con uno strumento letterario, il romanzo storico, che sarebbe diventato sempre più, fino a giorni nostri, un modo per raccontare, per voce di personaggi inventati, una storia viva e piena di verità. Non poteva immaginare che la storia di Gabriele Bagradiàn sarebbe diventata, nel giro di pochi anni, una sorta di manuale della resistenza per gli ebrei dei ghetti minacciati dalla furia nazista.
Proprio di resistenza, infatti, parla il romanzo storico: quella di uno sparuto gruppo di armeni (non più di un migliaio di famiglie) che, mentre la gran parte del loro popolo viene sterminata nelle lunghe marce e nelle esecuzioni sommarie ordinate dai Giovani Turchi tra il 1914 e il 1915, salì le pendici del Mussa Dagh e resistette per quaranta giorni all’esercito turco, addestrato e armato.
Il lungo racconto, che occupa più di novecento pagine, è diviso in tre parti: nella prima si prepara il dramma (L’avvicinarsi degli avvenimenti), nella seconda si racconta la scelta eroica di resistere (La lotta dei deboli), nella terza (Tragedia, salvezza, tragedia) il rapido precipitare degli eventi fino alla salvezza ormai insperata di buona parte degli Armeni del Mussa Dagh.
Il protagonista Gabriele Bagradiàn, nato a Yogounolùk, un insediamento armeno in Cilicia, in una delle famiglie più in vista del villaggio, vive e cresce a Parigi fin dall’età di dodici anni. Sposa una donna francese, Juliette, da cui ha un figlio di nome Stefano. Nonostante l’educazione europea, Gabriele mantiene sempre un forte legame con la sua patria, una sorta di attrazione, tanto che il piccolo Stefano viene affidato a un precettore armeno. Forte è anche il suo legame con l’impero ottomano, di cui l’Armenia è solo una delle tante etnie, tanto da condurlo a prendere parte, come ufficiale, alla prima guerra balcanica del 1912. Nel giugno del 1914, un telegramma del fratello gravemente malato lo richiama da Parigi a Istanbul per curare gli affari di famiglia. Mentre Gabriele, con la moglie e il figlio, si sono recati in Libano per una breve vacanza, con dichiarazioni di guerra incrociate incomincia il primo conflitto mondiale e Gabriele, che mai ha richiesto la cittadinanza francese, è costretto a rimanere in Turchia, schieratasi, insieme a Germania e Impero asburgico, contro la Francia, la Gran Bretagna e la Russia.
Decide, così, di trasferirsi insieme a Juliette e a Stefano nella casa avita, a Yogounolùk, in attesa dell’evolversi degli eventi. I primi mesi sono lieti: la comunità armena li accoglie con benevolenza, soprattutto per il bene fatto dal nonno Avetis. Dopo pochi giorni, tuttavia, da Antiochia arriva l’ordine di sottrarre a tutti gli Armeni anche il passaporto interno, così che Gabriele e la sua famiglia non possono più muoversi dal villaggio. Sempre più insistenti giungono le notizie di un male che si sta abbattendo sugli Armeni; prima solo qualche racconto sparuto, poi i racconti sulle deportazioni degli Armeni del villaggio di Zeitun, spostati verso il grande deserto della Siria.
In questo contesto, durante un’assemblea cittadina, Gabriele prende la parola e, con un coraggio di cui non sa l’origine, invita i suoi concittadini alla resistenza armata. Proprio in quel contesto appare per la prima volta nel libro quella che abbiamo definito «l’energia dei deboli»: parola dopo parola, frase dopo frase, non solo Bagradiàn fa affiorare il suo coraggio, ma lo trasmette all’assemblea, così che circa mille famiglie decidono di seguire il suo invito a spostarsi sul monte Mussa Dagh per sottrarsi alla violenza turca. Un’esigua parte del villaggio, circa quattrocento persone, fidandosi nonostante tutto delle rassicurazioni dei turchi, rimane nel villaggio in attesa di essere deportata: di loro non si salverà nessuno.
Incomincia così, tra trepidazione e coraggio, l’avventura dei cinquemila Armeni che per quaranta giorni sfideranno l’ira dei Turchi. Così, l’energia dei perseguitati allestisce un intero villaggio, con tanto di granaio, scuola, ospedale e luogo di culto. Questa stessa energia riorganizza la quotidianità, mette in comune i beni, organizza la resistenza armata e le incursioni contro i nemici, spesso sottraendo loro importanti pezzi d’artiglieria. Particolarmente importante è, suggeriscono i capi, mantenere la quotidianità: «Ter Haigazun insisteva con molta energia sulle parole consuetudine e vita ordinaria: da questa forze poco appariscenti dipendeva la validità e la durata dell’esistenza, più che dalla prestazioni straordinarie» (p. 329). Con i ragazzi, la mente torna al periodo della pandemia, quando, di fronte a una situazione eccezionale, si è cercato di far fronte allo straordinario coltivando l’ordinario: una forma ordinata della vita, il tentativo di mantenere i legami nonostante la distanza, la necessità di riorganizzare da capo le proprie abitudini, in nome di quella normalità che a volte finiamo per disprezzare.
Il cuore del romanzo intreccia eventi bellici e vicende sentimentali, storie personali e drammi collettivi. A successi inaspettati si alternano drammatiche sconfitte che portano alla disperazione, alla fame, alla malattia e al crescere della sfiducia. Eppure, per quaranta lunghi giorni, «i deboli erano forti e i forti erano, in verità, senza valore» (p. 549). Con l’avanzare della narrazione, la situazione si fa sempre più insostenibile fino a quando il tradimento di una manciata di uomini, pur sventato, provoca un enorme incendio che, avvistato da una nave francese nella baia di Alessandretta, segna la svolta finale degli eventi. Iniziano, infatti, le operazioni di salvataggio che porteranno alla salvezza di tutti. Solo Gabriele rimarrà sul monte, seguendo quell’inesplicabile che, proprio come diceva la moneta, è in lui e sopra di lui.