
MAD…LA “FOLLIA” DELLA SCUOLA (parte 2)

SONO UN MARINAIO IN VIAGGIO CON CRISTOFORO COLOMBO
DI FRONTE ALLA LEGGE

Leggendo della giovane impavida ragazza iraniana – per qualcuno “malata mentale” –, che qualche tempo fa si è spogliata alla Università di Teheran per protestare contro l’applicazione abusiva del velo obbligatorio da parte delle guardie di sicurezza, il pensiero vola rapido all’Atene di Pericle, a teatro, dove, nel centro dell’orchestra, un’impavida ragazza greca sfida la legge e il potere costituito: è Antigone, protagonista dell’omonima tragedia sofoclea, rappresentata per la prima volta nel 442 a.C.
Per duemila quattrocento anni, le ragioni di Antigone non hanno smesso di risuonare nelle coscienze occidentali. E questo non tanto – o non solo – perché questa tragedia sia artisticamente migliore o umanamente più intensa di tante altre, sofoclee e non, quanto perché ruota attorno a un nodo inestricabile da sempre: la norma ufficiale, dettata dal codice e la legge della coscienza individuale. Arriva prima o poi, nella vita di ognuno, un momento in cui una voce del cuore si erge orgogliosa di fronte a una legge imposta e ne mette in discussione il fondamento; il momento in cui lo spirito della legge non comunica con le corde dell’anima, in cui si crea una frattura netta di fronte alla quale l’individuo deve decidere.
Così accade ad Antigone che da sempre veste i panni della eroina che non si piega, decide e paga di persona e da duemila anni, a insaputa sua, ma certo anche del suo creatore, è una sorta di testimonial della lotta senza compromessi, del sentimento contro la ragione, della famiglia contro lo stato, spesso della donna contro l’uomo. Da sempre viene naturale schierarsi dalla parte di Antigone, non fosse altro che per il memorabile verso 523: «sono nata non per condividere odio, ma amore». Eroina tutta positiva, dunque?
No, viene subito da dire, pur consapevoli di scuotere il comune sentire. E per comprendere questa affermazione, occorre percorrere due sentieri: da una parte, leggere con onestà non solo la tragedia, ma anche il contesto storico e culturale nel quale è nata; dall’altra, riflettere sulla duttilità con cui un classico, proprio in virtù della sua universalità e della potenza di travalicare spazio e tempo, stretto nelle mani dei suoi lettori, può dire e fare cose che non coincidono esattamente con l’intenzione prima del suo autore.
Soffermiamoci brevemente su questa seconda pista: da sempre, abbiamo esaltato di fronte ai ragazzi questa natura meravigliosa di un classico, dipingendolo come un gioiello eterno, che non smette mai di parlare, di interpellare le menti e gli animi, che non si lascia ingabbiare, né etichettare. Un’opera, quando si stacca dalla penna, dal pennello, lo scalpello o dalla tastiera del suo maestro, non gli appartiene più: è proprio come una barchetta che prende il largo e, quanto è più forte, più ricca e più bella, tanto più lontano va… ed è bello e giusto che sia così: ciascuno di noi può leggere, guardare, ascoltare un classico e dialogare intimamente con esso farne argomento oggetto di confronto e dibattito, vestirlo con abiti nuovi e volti a lui contemporanei, prenderne materia per rielaborazioni e rivisitazioni e riletture; va tutto bene, tranne, a nostro avviso, afferrarlo nelle proprie mani e accaparrarsene, piegandolo alla propria esigenza: questo no, non è giusto perché un classico, proprio in virtù delle sue ali meravigliose, è di tutti e non accetta coercizione. Con l’Antigone sofoclea talvolta è capitato questo, ma basta il monito ai ragazzi e a tutti noi.
Torniamo sul primo sentiero per parlare del tema del nostro anno: la legge. Con i ragazzi delle superiori abbiamo letto la tragedia integralmente, affidando a ciascuno un ruolo: un’esperienza intensa verso la quale c’è stata grande serietà e giusto timore reverenziale. Con i ragazzi delle medie, ahimè, ci siamo dovuti limitare alla lettura parziale, ma tutti, grandi e piccoli, sono stati in grado di intus-legere l’opera, grazie alle categorie acquisite nell’incontro dedicato alla giustizia dei Greci. C’è tutto nell’Antigone. Vediamo: Antigone è figlia di Edipo e della di lui madre e moglie Giocasta: già questo, poverina, non è un destino facile! È sorella di Ismene, di Eteocle e Polinice, i due fratelli che, maledetti da Edipo per non essersi opposti alla sua condanna all’esilio, decidono di governare su Tebe un anno ciascuno. Comincia Eteocle che, allo scadere del suo mandato, non rispetta il patto e caccia il fratello. Polinice, esiliato, chiede aiuto al suocero, re di Argo, il quale lo appoggia in una spedizione contro la città natale: sette porte attaccate da sette Argivi e difese da sette Tebani: nell’ultimo scontro, Eteocle e Polinice muoiono l’uno per mano dell’altro. Tocca a Creonte, fratello di Giocasta, assumere il governo di Tebe. È a questo punto che ha inizio la tragedia di Sofocle. Creonte emana un editto, in virtù del quale il cadavere del traditore Polinice deve rimanere insepolto e illacrimato. Tremendo che un corpo morto non trovi requie nella sepoltura, oltraggio inaudito, allora come sempre, come ancora oggi! Ma, chiediamo ai ragazzi, Polinice è un traditore davvero? Chi fra i due fratelli ha avuto ragione? Nicolas non ha dubbi: nessuno, perché hanno usato violenza entrambi; Polinice, secondo Tiziano, perché Eteocle non ha rispettato il patto; Eteocle, per Matilde, perché ha governato bene e magari Polinice non ce l’avrebbe fatta. Roberto sostiene Eteocle perché è stato Polinice ad attaccare Tebe. Eccoci di fronte alla prima aporia: la tragedia non è ancora iniziata e già un problema è irrisolto e insolubile.
Antigone, appellandosi alle leggi divine che impongono pietà per i morti, trasgredisce il decreto del nuovo re di cui non riconosce l’autorità e impavida abbozza una simbolica sepoltura al cadavere del fratello. Più timorosa è la sorella Ismene, che reputa folle e inutile andare contro la legge. Di fronte al re scosso e irato per la violazione del suo editto, il corifeo ventila l’ipotesi che la sepoltura sia volontà degli dei, ma Creonte lo sbugiarda violentemente, ritenendo l’atto opera di nemici politici. Il responsabile del primo gesto non viene scoperto, il cadavere è diseppellito e così Antigone, per la seconda volta, offre al fratello gli onori dei defunti. Questa volta, sorpresa dalle guardie di Creonte, è trascinata alla presenza del re e qui ha inizio il famosissimo dialogo, nel quale la giovane rivendica con fierezza la legittimità del suo gesto: le leggi “non scritte, inalterabili, fisse, che non da ieri, non da oggi esistono, ma eterne” sono quelle che contano davvero, superiori a qualsiasi legge emanata da un mortale. Il re riconosce la dura volontà della ragazza: «ma sappi che una volontà troppo dura cade più facilmente e anche il ferro più indurito, cotto al fuoco e temperato, lo puoi vedere spezzato e infranto».
Presto, lo scontro fra i due, da sublimi princìpi precipita in un penoso sfoggio di mascolinità del re che sembra mal sopportare più che l’affronto in sé, il fatto che a tenergli testa sia una donna! Irato, vota la condanna a morte per Antigone e inizialmente anche per la innocente Ismene che a suo parere, in quanto donna, ha tramato certamente con la sorella. Antigone dovrà essere rinchiusa viva in una grotta fuori città: un sottile contrappasso, dove a un morto si nega sepoltura e sepoltura si dà a un vivo!
Entra in scena Emone, figlio di Creonte e Euridice e promesso sposo di Antigone, il quale con un discorso molto bello, richiama il padre alla vera grandezza dell’uomo: saper mutare i propri sentimenti e le proprie decisioni, non sentirsi gli unici detentori del giusto e del vero: «chiunque pensa di essere saggio lui soltanto, o di avere lingua o mente quale nessun altro, quando lo apri, si vede che è vuoto. Invece per un uomo, anche se sia saggio, non è affatto disonorevole apprender molto e non ostinarsi troppo».
Povero Creonte: prima deve prendere lezione dalla nipote e ora dal figlio: anche questo dialogo naufraga in una esibizione muscolare: un giovane non ha nulla da insegnare, soprattutto Emone che parla così solo perché irretito dall’amore per la cugina. Stia al suo posto: se il re si dimostra debole con i suoi famigliari, nessun cittadino lo prenderà mai sul serio! Emone, sconsolato, lascia la scena.
Solo l’indovino Tiresia, quando Tebe è colpita da una serie di eventi infausti, fa vacillare le certezze di Creonte che, imbeccato ulteriormente dal corifeo, decide infine di cambiare posizione: dispone gli onori funebri per Polinice e di persona va a liberare Antigone. Ma… è strage, intitolerebbe il giornale oggi: Antigone si è impiccata, Emone si scaglia contro il padre e poi rivolge contro di sé la spada e anche la mamma Euridice si uccide disperata. A Creonte, solo, non resta che vivere nel dolore e nella consapevolezza del proprio errore: «Ah errori ostinati, errori fatali della mia mente dissennata» e il coro spietato: «troppo tardi tu vedi dike, la giustizia». Le ultime parole di Creonte suscitano pietà quasi: «Ah servi, presto! Portatemi via, portatemi lontano: non sono più nessuno (…) conducete via questo uomo folle!».
Sono tantissime le riflessioni da fare… (continua)