
SUI MONTI A RESPIRARE LIBRI: INTERVISTA A MICHELE BONELLI

HO VINTO IL PREMIO NOBEL
“AC-CORDARSI” PER IL BENE COMUNE

Anche oggi le grandi aziende e le istituzioni chiedono ad artisti famosi di trovare un modo per attirare lo sguardo di consumatori e utenti, per esporre in modo chiaro l’immagine dell’azienda, per rendere accattivante il loro brand: si tratta di processi di marketing. Siena sembra fare qualcosa del genere con Lorenzetti, ma la sfida lanciata al pittore è molto diversa. La città, a differenza di un’azienda con il suo prodotto, non sa già in partenza cosa significhi esattamente ‘un buon governo’: ha bisogno delle parole e delle immagini dell’artista per poterlo capire e per farlo capire, per avere l’intuizione di una via da seguire. Forse anche per questo motivo, il discorso allegorico, come vedremo, è così complicato.
L’affresco del Buon governo ha tre registri narrativi sovrapposti: il cielo, il livello delle virtù e la vita dei cittadini.
Nel più alto, il cielo blu, stanno logicamente le virtù teologali: fede, speranza e carità volteggiano attorno al capo del Governo e la sapienza si erge fiera sopra la giustizia, tenendo salda in mano la sua bilancia.
Il livello più complesso è quello centrale, dove Lorenzetti lascia spazio alle virtù cardinali o meglio, a una loro nuova organizzazione e interpretazione. La giustizia, a sinistra, regola una grande bilancia su cui stanno in equilibrio le sue due forme principali: quella distributiva, a sinistra, che infligge pene e concede premi, e quella commutativa, a destra, che regola le relazioni orizzontali tra i cittadini, affidando agli uomini due unità di misura – una di lunghezza e una di capacità –, necessarie a praticare autonomamente scambi equi.
Un elemento iconografico importante lega questo livello centrale a quello inferiore, dove abitano i cittadini comuni: si tratta di due corde (una rossa e una bianca) che, dai piatti della bilancia, si intrecciano, divenendo un’unica corda, nelle mani di un personaggio che fa da tramite fra le virtù e la vita quotidiana. È la Concordia, parola la cui etimologia richiama un cuore comune (cum corde), ma, per un felice gioco linguistico, anche una corda comune (cum-chorda). E proprio questa corda, dalle mani della personificazione della Concordia, passa di mano in mano a tutti i cittadini che abitano Siena, appunto, in modo concorde, tenendo insieme il filo del loro destino. Sono i cittadini stessi a portare questo legame al Buon governo, l’austero e canuto signore che campeggia tra le virtù e il cui polso è legato dalla concordia stessa. Questa scena, probabilmente, è la più eloquente dell’intero ciclo: ci ricorda che nessuna legge, nessuna istituzione, per quanto ben congegnata, può funzionare senza l’apporto di ciascuno e di tutti.
È proprio questo il tema ricorrente e centrale non solo del dipinto, ma del nostro viaggio attorno al tema della legge: il bene comune. Ciò che, altrove, abbiamo chiamato spirito della legge, nell’affresco di Lorenzetti è quel legame invisibile – qui visibile proprio nella corda bicolore – che fa di un gruppo di persone una comunità, un popolo. Certo, il Governo dovrà tenere sempre davanti agli occhi le virtù e la loro bellezza: la temperanza, la prudenza, la fortezza, la giustizia (le tradizionali virtù cardinali), ma anche la magnanimità e la pace, che Lorenzetti aggiunge all’elenco consueto.
Una città così governata non è un’utopia: c’è ancora il male, ci sono le guardie e ci sono persino i poveri. Ma ciascuno ha il suo posto, persino chi è più povero. È proprio quanto Lorenzetti dipinge nella complessa e variopinta scena degli effetti del Buon governo, che occupa la parete est della Sala dei Nove. Una città piena di vita, dove si danza, ci si sposa, si studia, si lavora e le cui porte sono rigorosamente aperte su una campagna ordinata e serena, nella quale si semina e si raccoglie, si caccia e si allevano armenti. Colpisce che, proprio alle porte della città, una donna si volti a guardare un mendicante. Come a dire: forse non si può sconfiggere la povertà, ma si può certo combattere la miseria, ossia l’invisibilità del povero. Misero infatti è quel povero che, oltre a non avere beni, finisce per vergognarsi di ciò che gli manca: un’esperienza che i ragazzi conoscono benissimo perché spesso, alla loro età, il possesso delle cose diventa una sorta di regola, di norma del vivere comune che discrimina chi, per un motivo o per l’altro, non ha accesso a ciò che desidera e lo cancella.
Ci fermiamo a riflettere con pazienza su questo bene comune: non si tratta semplicemente di riconoscere che ci sono cose che appartengono a tutti, ma di accorgersi che esistono beni che solamente un soggetto comune può generare, coltivare e custodire: il bene comune è ciò che rende una comunità qualcosa di più della somma degli individui che la compongono; non è la soluzione di tutti i problemi, ma la possibilità di una vita ampia, in cui le persone si incontrano, progettano, costruiscono un futuro possibile. Tutto l’opposto, invece, avviene nel caso del Malgoverno. La città è la medesima, persino le persone, a giudicare dai vestiti, sembrano le stesse. Ma tutto è precipitato in un incubo: comanda un Malgoverno, brutto e strabico. La sua corte non è fatta da virtù ma da vizi: il furore, la divisione con una sega tra le mani, la guerra, la crudeltà (raffigurata in una donna che minaccia un bambino con un serpente!), il tradimento, la frode. Il cielo, dove stavano le virtù teologali, è occupato da tre grandi mali: l’avarizia, la superbia e la vanagloria. Se noi non possiamo fare a meno di pensare alle tre fiere che Dante incontra all’inizio del suo viaggio, lo stesso è accaduto anche a Lorenzetti: il poeta fiorentino è l’ispiratore segreto di tutto il complesso immaginifico.
A partire da questa scena, il resto non colpisce: la pace è legata ai piedi del Tiranno, la città è vuota e popolata solo di soldati armati. Anzi, non c’è alcuna attività artigianale se non la costruzione di armi. Anche la campagna è preda di violenti e di briganti e non vi cresce nulla. Cosa rende la città così drammaticamente preda del male e della devastazione? Ce lo spiega senza mezzi termini il testo con cui Lorenzetti ha accompagnato le immagini: il ben proprio cancella quello comune, l’incapacità dei singoli cittadini di vedere oltre l’interesse egoistico è la vera fonte di ogni male.
Abbiamo iniziato il nostro percorso indicando lo spirito della legge. Lorenzetti ci ha suggerito che, forse, questo spirito non viene dal cielo, né da qualche realtà trascendente; forse esso abita in noi, nella nostra capacità di lasciare che esso ci raccolga e passi da uno all’altro. Forse, senza ciascuno di noi, la legge, davvero, è solo lettera morta.