
VERRÀ UN GIORNO…

QUANDO LA LEGGE DÀ IL RITMO
MALATI DI GUERRA

L’unità di misura degli eventi drammatici, lo sappiamo, è sempre il numero dei morti. Lo gridano i titoli dei giornali e sono numeri che straziano, perché parlano di vite concluse per sempre, senza appello.
Un numero ha più spigoli di una parola, persino lo zero si acumina, e un numero è perentorio, il suo impatto è immediato.
Tutti ricordiamo i lugubri bollettini quotidiani in tempo di covid: ne eravamo stregati, non riuscivamo a non guardarli. E poi, i numeri dei vaccinati, con i puntini che diventavano di giorno in giorno verdi, come la nostra speranza. Tutti abbiamo in mente il contatore dei femminicidi, e, in questi giorni, il numero dei morti nel terribile terremoto del Myanmar che cresce, accanto a paroloni come ecatombe (erano cento i buoi quelli dell’ecatombe, fra l’altro, non tremila come, a oggi, le vittime di questo sisma: forse andrebbero scelte in maniera più oculata le parole…), strage, incubo.
Poi, quando il campo si restringe alle guerre, così angosciosamente comuni in questo nuovo millennio, accanto alla parola morti si aggiunge l’aggettivo civili, quelli che con la guerra non c’entrano direttamente, perché non imbracciano armi. Che poi, un soldato che muore, per una mamma è sempre un figlio e per un figlio è un padre e per una moglie è un marito che non c’è più.
Il climax raggiunge l’apice quando, dal numero dei morti, si isolano i bambini. Loro non solo non imbracciano armi, ma sono i più innocenti di tutti, i più deboli, quelli che con la guerra c’entrano meno di tutti, quelli che chissà cosa sarebbero potuti diventare da grandi…
Ho sempre pensato che valutare la drammaticità di un evento dal numero dei morti sia solo sensazionalismo: qualche giorno fa le vittime del terremoto in Myanmar erano, in realtà, duemila settecento diciannove, che è comunque diverso da tremila, se provassimo a immedesimarci nei familiari di quelle duecento ottantuno persone che invece vedono ancora la luce del sole. Dunque: sensazionalismo, parziale, superficiale, in un certo senso liberatorio, perché di quei corpi morti dopo un po’ non ci si deve più occupare.
Ma le vittime di un evento drammatico sono invece la somma di chi muore e di chi sopravvive. Chi sopravvive a una tragedia non è esattamente vivo, perché sopravvivere e vivere sono questioni ben diverse.
Limitiamoci alla guerra. Tempo fa, un papà straziato nell’eterno conflitto israelo-palestinese rilasciò una dichiarazione: «vorrei sapere che mia figlia è morta, perché non posso più vivere immaginandola in orrende mani crudeli e folli, sola, terrorizzata: che ne sarebbe di lei, dopo?».
Parole pacate e meditate, lucide, che mi avevano investita come un treno in corsa, aggrovigliandomi in una matassa di pensiero inestricabile. Certo, ci vuole fede o, quanto meno, un’apertura alla dimensione ultraterrena, a un al di là di qualsiasi tipo, per esprimersi in questo modo. Oppure bisogna essere seguaci del saggio Epicuro, ma che la morte, in condizioni estreme, possa rappresentare anche un sollievo, questo è innegabile: passaggio a una condizione migliore, a una eternità, oppure cessazione del dolore e fine di una tremenda pena, la morte può talvolta avere un volto amico.
Volto che non sempre ha la vita che resta: a meno di profondi, infiniti, costosi (in termini di fatica e di denaro!) percorsi di lavoro introspettivo, la vita che resta è difficile e, per tanti aspetti, pregiudicata per sempre.
Partiamo dai militari, dai reduci della guerra, della Grande Guerra per esempio: è dato storico inconfutabile che esattamente nei reduci, fascismo e nazismo trovarono il materiale umano su cui crescere e imporsi: le origini del fascismo – sostiene un grande storico – sono da imputare alla sconfitta di Caporetto. E Emilio Lussu, in quel capolavoro che è Marcia su Roma e dintorni, scrive:
Studenti, piccoli impiegati, artigiani prima della guerra, erano diventati tenenti e capitani, comandanti di plotone, di compagnia, di battaglione. Chi ha comandato una compagnia in tempo di guerra, può ricominciare senza sforzo, a studiare sui banchi di scuola? Chi ha comandato un battaglione, può rimettersi senza sentirsi umiliato, a fare l’impiegato d’archivio o lo scrivano a 500 lire al mese? La vita civile diventava per loro impossibile. E potevano rientrare nella vita normale in stato fallimentare, essi che avevano vinto la guerra?
Certo che è così e le testimonianze letterarie sono infinite, per ogni guerra, in ogni tempo: vogliamo parlare dei reduci del Vietnam? Vite compromesse per sempre: mani abituate a colpire e a impugnare armi, incapaci di stringere un arnese da lavoro; occhi abituati allo strazio delle carni, incapaci di vedere il bello; orecchi abituati al fragore di spari e esplosioni, incapaci di ascoltare il silenzio; menti abituate al complotto, incapaci di fidarsi dell’umanità; cuori aizzati all’odio, incapaci di fratellanza; animi abituati al comando, incapaci di soggiacere alle normali regole di convivenza… Nelle capienti file di questi individui, Mussolini in Italia e Hitler in Germania raccolsero a piene mani, astutamente e lucidamente, i campioni del loro squadrismo: gente che della violenza aveva bisogno per sentirsi viva!
E poi le donne; le donne in guerra perdono tutto. E in più, perdono l’onore, da che mondo è mondo. E vanno avanti con il corpo ferito, se sono state colpite e in più con la dignità ferita, se sono state violate, come sempre accade.
E poi gli scemi di guerra, come veniva popolarmente chiamato quell’esercito di persone che, persa la ragione, ammutoliva, gridava o rideva o piangeva per le allucinazioni, tremava in nevrosi di ogni genere; anche oggi sono un prodotto di guerra, e hanno la loro etichetta, la solita sigla che nobilita e semplifica i problemi: PTSD, persone affette da disturbo da stress post- traumatico. “Dove si semina violenza, crescerà un giorno la piena follia”.
E poi i suicidi; Primo Levi, uomo di una cultura e di una umanità ciclopiche, sopravvissuto a molto più di una guerra e morto suicida nel 1987, parlò del suo essere sopravvissuto come di un “dono avvelenato”; prima e dopo di lui, migliaia di fragilità, fino ad arrivare a quella di una giovane ragazza israeliana, che, sopravvissuta alla strage del 7 ottobre 2023, un mese fa si è tolta la vita, oppressa dall’incomprensione del male e dal senso di colpa. Fa orrore.
E poi i bambini; i bambini riassumono in sé le regole universali. Li vediamo in tv, li vediamo giocare in mezzo alle macerie di Gaza, sotto le stazioni della metropolitana di Kiev, non li vediamo – perché la tv non se ne occupa – in Yemen, in Afghanistan, in Somalia, in Sudan… giocheranno anche lì, ma a quale gioco? Quale cibo nutre i loro corpi gracili e i la loro fame di amore? Quale acqua disseta i loro corpi indifesi e il loro desiderio di ascoltare? Quali favole li aiutano ad addormentarsi la sera? Quale maestra insegna loro la matematica e la sapienza del vivere? Le scuole crollano, i libri e i quaderni bruciano; i registri si perdono per sempre: solo la guerra in Ucraina, riferisce Save the children, fino a ora ha impedito l’accesso all’istruzione a circa quattro milioni di bambini. Un bambino che oggi mangia poco e male, che sguazza nei detriti, che non va a scuola, che non ascolta favole, che non legge, se sopravvive, che adulto sarà domani?
I malati di guerra — tutti, uomini e donne, bambini e adulti -, sono i sopravvissuti che soffrono malattie incurabili: si chiamano terrore, angoscia, rabbia, odio, sete di vendetta, pregiudizio, diffidenza, vergogna, incertezza, precarietà, solitudine, sfiducia, rassegnazione…
Il numero dei malati di guerra non ha numero: è infinito e cresce a dismisura, se a esso aggiungiamo ognuno di noi: noi che, guardando la guerra solo su piccoli, spietati schermi, ci stiamo tutti ammalando di abitudine: in assoluto la peggiore delle malattie.