
C’ERA UNA VOLTA LA SCUOLA MEDIA (parte 6)

IMPARARE POESIE A MEMORIA
PANEM ET CIRCENSES

Correva il primo quarto del secondo secolo dopo Cristo, tronfi uomini d’arme reggevano l’impero, cittadine e cittadini comuni vagavano per l’Urbe, disaffezionati alla cultura e un po’ leggeri: poiché nelle domus ancora non rumoreggiava la televisione, ingannavano il tempo in taverne, terme e botteghe, fra intrighi e pettegolezzi. Un cantore dei vizi umani, astioso e impietoso, si affacciò alla finestra e osservando il suo misero prossimo – gentaglia di Remo, lo chiamava –, tuonò che quel suo popolo aveva perso ogni serio interesse e spasimava solo per due cose: pane e giochi!
Soffriva indignato e frustrato Giovenale: tale è il nome del poeta latino che in sedici satire (il nostro verso populus duas tantum res anxius optat: panem et circenses appartiene alla decima, dallo sconsolato titolo “Le nebbie dell’errore”) sferzò a sangue gli usi e i costumi romani, ergendosi a giudice torvo e distaccato delle debolezze umane. La sua satira aveva perso quel sorriso autoironico che caratterizzava il genere ai tempi poco anteriori di Lucilio e di Orazio, aveva perso l’indulgente comprensione per i comuni vizi e la complicità con i propri simili e quel carattere di paternalistica pacca sulla spalla che siamo soliti riconoscere a questo genere letterario. Pane e giochi: di questo solo ha voglia il popolo. Ipse dixit!
Ma di fronte a un popolino demotivato, che ambisce solo a riempirsi lo stomaco e a distrarsi dai pensieri cupi della grigia quotidianità, assistendo con sguardo ipnotico (neanche partecipando!) a giochetti insulsi fatti in serie, ecco aprirsi due strade: impegnarsi con rigore e passione per riconquistarlo alla sua più nobile natura, oppure farsi forza di questa sua miseria. Buona la seconda, naturalmente: e così panem et circenses è diventata una delle armi più affilate ed efficaci, strette nelle mani di chi detiene il potere. E, più di tutti gli altri, quel quarto potere che tanta parte ha nella formazione delle coscienze umane. Si chiama comunicazione di massa e la televisione, benché oggi un po’ ai margini, soprattutto nelle nuove generazioni, dal suo primo vagito ne è la regina.
Accendiamola un momento questa televisione; accendiamola a ora di pranzo o a ora di cena: amplissima si sa, l’ora di pranzo va dalle 12 del Trentino Alto Adige alle 15 del caldo Sud, mentre l’altrettanto ampia ora di cena va dalle 19 alle 21.30, sempre aseconda del parallelo terrestre abitato. Accendiamola sul primo canale pubblico perché è su questo che, se siamo uomini, dobbiamo misurarci. Scelgo queste fasce orarie perché può capitare talvolta che, dovendo pranzare o cenare da sola in casa, cosa che non mi è mai piaciuta, mi apparecchi un lussuoso vassoio e mi sieda in sala, davanti alla tv, appunto. Lo facevo già da ragazza e a farmi compagnia erano sceneggiati piacevoli e innocui.
Alle 11.55 (interessante l’ansioso anticipo di 5 minuti) dal lunedì al venerdì, scatta un programma così definito nella guida tv: “ricette, chiacchiere e buonumore sono gli ingredienti principali, insieme ai nuovi giochi, ai tanti ospiti, le finestre sulle bellezze e le eccellenze gastronomiche della nostra penisola”.
Impossibile sfuggirgli: dura un’ora e mezzo!
Nell’ora serale, ore 18.45, con la durata di 75 minuti, un “gioco a quiz in cui sei concorrenti si sfidano in sei diversi giochi ad eliminazione”.
Segue una mezz’oretta di informazione che, più di un telegiornale, ormai è uno show con cambi di scena, ospiti, siparietti vari e poi 55 minuti in cui si tocca il fondo con un programma che trovo — e chiedo scusa — veramente demenziale, “il gioco delle identità nascoste”. Gli hanno dato il nome di uno strepitoso film di Monicelli, tratto da un racconto di Italo Calvino, interpretato da Gassman, Claudia Cardinale, Carla Gravina: uno dei capolavori del cinema italiano,che si aggiudicò due Nastri d’argento e una candidatura ai premi Oscar 1959 come miglior film straniero e inserito nella lista dei 100 film italiani da salvare. Non una cosetta da nulla. Senza contare poi che chi lo conduce si fregia del nome del genio indiscusso della musica classica…
Documentandomi, ho scoperto che, trito e ritrito, il tormentone di Rai1 ha “festeggiato” le mille puntate lo scorso maggio. Neppure quattro parolette in croce, non una nozioncina grammaticale o di cultura generale insegna questo game show (così si definiscono perché la lingua straniera intriga di più) che, nei caldi mesi estivi, lascia il posto da secoli dei secoli, a un nostalgico amarcord televisivo, il quale se, nelle prime annate, poteva anche risultare gradevole, ora reca una noia a dir poco imbarazzante.
A condurre questi ludi più o meno gastronomici, sacerdoti e vestali, verso i quali non posso che nutrire ammirazione per la tenacia, l’inossidabilità, la perseveranza, la resistenza alla routine, il portafoglio… sembra ci siano solo loro, sembra che altri volti e altre voci non si riescano a far brillare e risuonare sul piccolo schermo. Incubi nazionali più che conduttori, ormai…
Non va meglio, intendiamoci, se si cambia canale: gare culinarie, sfide all’ultima ricetta, viva la gastronomia, cotto al dente, gusto ed energia, prove del cuoco, ci vediamo al bar, mangia sano e bevi meglio; e poi, giochi di parole, paroliamo, ghigliottiniamo, indoviniamo, tale e quale, indovinelli, giochi di cultura generale, giochi di abilità, giochi di prestigio, giochi di memoria e chi più ne ha, più ne metta.
Fra i giochi, mi permetto di annoverare anche i programmi che più si avvicinano agli scontri fra gladiatori – o fra animali – nei circhi: i talk show di politica e attualità, i veri e propri circenses: anche questi tutti uguali, tutti alla stessa ora, tutti, da annate interminabili, nelle mani dei soliti quattro giornalisti e dei soliti dieci ospiti.
Ma questo, mi si obietterà, è quello che vuole, che ama e brama (optat) la gente! Intanto, per prima cosa, anche io faccio parte de la gente, e tutto questo non lo amo affatto; e come me, non lo ama né lo brama la maggior parte delle persone che io frequento, delle quali tutte hanno due gambe, due braccia, due occhi e due orecchi, una testa: gente in carne e ossa dunque, normale, normale.
Detto questo, mi si obietterà che la concorrenza fra tv ha delle regole, che l’audience domanda, che la televisione, lo si sa, ormai è ridotta a qualche intermezzo di programma fra una pubblicità e l’altra.
Mi si obietterà anche che ognuno ha la libertà di guardare o meno, di accendere o di spegnere e mi si inviterà a spegnere e fare altro. Grazie del consiglio, è già così. Eppure il rammarico è forte: perché, cara Rai tv, che sei stata capace di insegnare a milioni di Italiani la lingua, la musica, il costume, la geografia, la storia e le scienze, di unire il paese e di riunire gli amici e le famiglie, ora ti sei ridotta così, a copiare programmi d’oltre oceano, a far ribollire le menti nel brodo dell’ignoranza, a farle navigare nelle nebbie del vacuo? Mi obietterai che sei capace ancora di fare tutto quel bene e mi suggerirai di sintonizzarmi su Rai Cultura o Rai Storia o Rai Scuola. Grazie del consiglio, già lo faccio e spesso con soddisfazione: mi piacciono tutti quei canali a due cifre, relegati lassù dove osano le aquile.
Ma la libertà è bello e coraggioso giocarsela sui grandi numeri, la vera scommessa è il lavoro sul cittadino comune, la vera passione è fare crescere gli ultimi anche perché i primi sono già cresciuti, ci vuol poco.
Su un muro del centro di cultura per ragazzi, del quale mi stimo di essere la presidente, campeggiano dei versi meravigliosi di Emily Dickinson. Sono il manifesto del nostro programma:
non conosciamo mai la nostra altezza, finché non siamo chiamati ad alzarci… We never know how high we are, till we are asked to rise… Ed è così vero!
Lavoriamo con ragazzi di periferia, anime semplici come quelle che navigano sulla piccioletta barca del secondo canto del Paradiso: tale è il nome della nostra associazione: La piccioletta barca, centro di cultura per ragazzi. Scommettiamo sull’animo dei ragazzi, sul loro naturale desiderio di ascolto, sulla loro innata curiosità e, con coraggio, li chiamiamo ad alzarsi. Proponendo con il sorriso solo cose difficili, da grandi. Da anni ci riuniamo con loro (fra l’altro) il sabato mattina e leggiamo, pensiamo e dialoghiamo. E mica lavoriamo su edizioni ridotte o semplificate, mica leggiamo roba da bambini: leggiamo sui testi originali Le opere e i giorni e Prometeo incatenato, per parlare di futuro; Il simposio, Oblomov e Il ritratto di Dorian Gray per parlare di desiderio, Le confessioni di Agostino e Peer Gynt per parlare di dialogo; Edipo Re e Il discorso sulla dignità dell’uomo di Pico della Mirandola per parlare di sapere. E leggiamo anche Chagall e Van Gogh e Bosch; leggiamo anche Mozart e Grieg, perché la pittura e la musica sono trame e ordito del grande tessuto della cultura, al pari della letteratura. E, cosa incredibile, i ragazzi vengono ogni sabato mattina: quell’unica mattina in cui potrebbero dormire – sono ragazzi della scuola media, quell’età ingrata che non piace a nessuno – e bighellonare, vengono e ascoltano e fanno domande e imparano e diventano amici; vanno a scuola e raccontano, raccontano anche alla mamma e al papà che a stento parlano l’italiano, e sono più sicuri di sé, più felici, più bravi. Chi lo direbbe, non è vero? I ragazzi vogliono e amano e bramano (optant) una cosa sola, neanche due: il loro telefonino, ma noi abbiamo scommesso su di loro, li chiamiamo a fare fatica, a sforzarsi, a impegnarsi in cose grandi: venivano in tre il primo anno il sabato mattina, ora sono ventisette. Per rendere grandi e libere le anime delle persone, per elevarle al livello della promessa della vita buona, bisogna chiamarle ad alzarsi. Ci vuole passione e tanto coraggio, niente altro.
Cara Rai Tv, sei tu che per anni, proprio sul tuo canale principale e in prima serata, hai ospitato un programma di divulgazione scientifica. Quando recentemente è morto il suo ideatore e conduttore, le immagini del cordoglio nazionale sono state impressionanti: un giovane papà in particolare mi ha colpita. In coda per ore per l’ultimo saluto alla camera ardente, ha detto di avere chiamato il figlio con il nome di quel personaggio per riconoscenza e affetto, perché grazie a lui aveva imparato tanto e si era appassionato alle scienze.
Ci vuole coraggio e perseveranza e forse la disponibilità a perderci un po’ economicamente, almeno all’inizio. Gli uomini sono creature belle e la vita non è uno gioco a premi, né tanto meno un’abboffata.
Un canto della Commedia al giorno, al posto di un buffet; il libretto di un’opera al posto di un cruciverbone; un quadro o un museo, un personaggio storico, un borgo medievale… non sono certo io a doverti insegnare: queste cose le sai e le fai lassù dove – a tuo parere – volano solo le aquile. Portale giù, dove gli umani si sprofondano sul divano e presto potrai meravigliarti di scoprire che le aquile nel bel paese sono molte, molte di più di quel che tu pensi: bastava solo aprire le gabbie dove il quarto potere le rinchiudeva. E potrai gloriarti, da vera Tv di Stato quale sei, di avere contribuito a restituire agli uomini la loro dignità di eredi di Dante, di Leonardo, financo di quel Giovenale che tanto meglio di me avrebbe saputo scrivere queste parole…