
MAESTRO GALEAZZO E I SUOI BAMBINI

LA PESANTEZZA DELLA SEMPLIFICAZIONE
DE-SCOLARIZZARE L’UMANO

Questo testo è stato preparato in occasione di un incontro di formazione riservato ai nostri volontari.
1.
Questo incontro non può che iniziare con la nostra gratitudine per quello che fate, per il vostro impegno, per la precisione e la passione con cui avete colto l’invito della nostra associazione. C’è una stoffa umana, una buona stoffa umana che quando si incontra (nei grandi, nei giovani e anche nei piccolissimi) ha sempre delle risonanze stupende. C’è una stoffa umana che si sente al tatto e che si riconosce ben al di là delle parole, dei progetti e persino delle idee. È la buona stoffa con cui si costruisce il mondo buono, che oggi — io credo — significa il mondo autentico. Qualcuno ha scritto, un po’ di anni fa, che la post-modernità non è affatto priva di etica come si direbbe; ha però spostato il senso, il ‘sensorio’ del bene nell’ambito dell’autentico, che è un ambito più fine, difficile da misurare, ma che è anche uno dei luoghi in cui si riconosce l’universale umano, ciò che è proprio di ogni uomo in quanto uomo, quell’umano che è comune a tutti.
Vorrei questa sera dire due cose per noi decisive, sebbene forse avremo modo, negli anni, di avere molto più di questo. Le due cose si muovono attorno a ciò che siamo, a ciò che stiamo facendo qui. La prima su quello che chiamiamo volontariato (non sono sicuro che questo termine mi piaccia, ho spesso un’idiosincrasia nei confronti di alcune parole che diventano parole d’ordine). La seconda riguarda invece lo studio, la cultura e quello che in Piccioletta Barca stiamo cercando di fare.
2.
Perché mai ci si prende cura d’altri? Al di là delle proprie convinzioni, intendo, al di là del ritorno emotivo, del fatto che la gioia dell’altro ci restituisce grandi soddisfazioni. Perché mai ci si prende cura dell’umano? Un grande filosofo, Hans Jonas, che ha passato la vita ad occuparsi di questioni raffinate per terminarla chiedendosi come salvare il mondo dal baratro, dice una cosa che mi è rimasta nel cuore e nella mente. Si chiede in che modo si possano definire i diritti delle generazioni future, nello scenario contemporaneo in cui l’uomo ha il potere di distruggere la loro possibilità di esistere. In fondo, si chiede il filosofo, le nuove generazioni non ci sono ancora ed è ben difficile immaginare un soggetto di diritti che ancora non c’è. Egli risponde così: non si difendono le nuove generazioni, si difende l’umano: quella cosa che è di tutti e che esiste solamente nelle sue incarnazioni. Non è il diritto di chi non c’è ancora, ma il tuo diritto a vedere l’umano che si incarna e cresce. Ad esso corrisponde un preciso dovere dell’altro: offrirti un’incarnazione dell’umano che sia credibile, degna e che onori l’umano-che-è-comune.
Io credo che questo pensiero, nato in tutt’altro contesto, ci aiuti a collocare la nostra cura nei confronti dei ragazzi nel modo, nel luogo e nella figura più giusta. Ne va dell’umano che è comune, dell’umano che non esiste senza le sue incarnazioni. Ne va dell’umano che è destinato a superarci, di quel mistero che l’uomo è, un mistero che ha bisogno della libertà di ciascuno per mostrare il suo splendore, per uscire dalle sue secche.
È per questo, io credo, che le materie che definiamo oggi umanistiche abbiano un compito preciso e imprescindibile nell’ambito educativo, un compito che le materie scientifiche, le grandi vincitrici della contemporaneità, non potranno mai avere. Non voglio dire, ovviamente, che le materie scientifiche non servano. La matematica è bella come la musica; ma le materie che si occupano dell’umano, che si lasciano sedurre da questo mistero che è l’uomo, che lo studiano e lo pensano (Agostino per descrivere il sapere dice “cum assensione cogitare”) hanno un ruolo fondamentale, hanno proprio un compito di fondamento nell’educazione.
Per questo qui siamo alla Piccioletta Barca, con un profondo, profondissimo legame con i nostri ragazzi, ma al contempo con una passione per l’umano che supera questo stesso legame, poiché ne è l’origine, il senso e il destino. Come qualcuno di voi sa, due anni fa abbiamo perso una decina di ragazzi affidatici da una comunità: erano i ragazzi con cui abbiamo lavorato per quattro anni. È stato un momento difficile, perché il legame che si genera è profondo ed è una lacerazione che ancora si fa fatica a portare. Eppure il legame non è il fine ultimo di questo lavoro: il fine ultimo è l’umano-che-è-comune e che, sebbene non si dia senza dei volti precisi, sebbene non possa essere custodito altrove se non in volti precisi, rimane il grande destinatario della cura. Ma il legame ti permette di guardare un volto nuovo, fino ad allora sconosciuto, ricominciando ad accompagnarlo.
Capite, al contempo, che questa cura ci libera dal paternalismo che rende l’altro schiavo, dal ricatto che imprigiona lui e me, dalla dipendenza che non lo lascia libero. Io oggi non mi soffermo su questo, ma è il flagello di ogni rapporto educativo questa dipendenza tremenda che produce madri che non sanno vivere senza figli, che produce rapporti di potere per cui l’educatore si rispecchia nei suoi ragazzi e li fa crescere solo fino a quando non rischiano di superarlo.
Questa visione libera anche dal mito dell’eccellenza, dalla competizione che distrugge l’umano-che-è-comune per andare a ricercare proprio ciò che è straordinario, ciò che non è comune, nell’umano. Quella abitudine delle mamme per cui quando tuo figlio che suona il piano è sempre Mozart, oppure non è nulla. La cura per l’uomo non cerca l’eccellenza, perché è l’umano comune, è l’umano è di tutti. E, soprattutto, è per tutti.
È chiaro, infine, che non si può custodire questo umano comune senza custodire l’umano che è in me. Chi non studia non può insegnare: lo riassumerei così. Studiare significa moltissime cose, ma deve essere chiaro che la profondità che posso raggiungere io e quella che può raggiungere l’altro sono la stessa questione, sono esattamente e precisamente la stessa questione. E devono essere custodite insieme. Come dicevano gli antichi: se io amo la compagnia degli altri, se amo la relazione con l’altro, non posso tollerare di non essere una brava persona perché non sopporterei mai di vivere con un poco di buono. Non posso tollerare di far crescere un ragazzino, di far crescere in lui l’umano, se al contempo non lo faccio crescere in me. Proprio allo stesso modo: testa e cuore.
3.
Questo, in particolare, vale per la Piccioletta Barca, dove ci occupiamo di cultura e dove la cultura è pensata esattamente come il linguaggio dell’essere uomini, come la risposta al compito di costruire insieme l’umano. Perché la cultura dice esattamente ciò che è umano, ciò che è coltivato e ciò che è comune, ciò che appartiene a tutti (o, forse, ciò che, non appartenendo proprio a nessuno, rende possibile la comunità).
Vorrei però riflettere su perché, oggi, è necessaria la Piccioletta Barca. Certo, alla radice di questo centro culturale sta il disagio di tanti ragazzi che vivono in luoghi culturalmente poveri e socialmente feriti, luoghi in cui la scuola — perché piove sempre sul bagnato — è spesso altrettanto fragile. È chiaro che non dovrebbe essere così, che la scuola pubblica, l’istituzione scolastica universale nasce di per sé proprio per i luoghi più fragili; eppure, come spesso capita, talvolta l’istituzione si avvita su se stessa: i posti più ambiti sono scelti dagli insegnanti più bravi e ai posti più miseri restano insegnanti mediocri. Ma resta la domanda: perché è necessaria la Piccioletta Barca? Perché — lo diciamo tra noi, un po’ sottovoce — sarebbe necessaria anche in un ambiente ricco e benestante?
Un po’ di anni fa è uscito un libro importante, sebbene leggerlo oggi significa anche scoprirlo un po’ datato. Un libro che risente di tutto il linguaggio degli anni ’70, ma scritto da un uomo di grande valore: un filosofo, medievalista, teologo, sociologo che risponde al nome di Ivan Illich. Fa parte di quegli autori che si conoscono molto poco e che, pure, hanno lasciato al nostro tempo delle pietre miliari. Illich è tra i primi a parlare di gender, per esempio; è il primo a porre le basi di quella che oggi si chiama decrescita felice (e che lui sapeva pensare, mi pare, meglio di come lo si fa oggi). Illich ci offre una delle critiche più acuminate al mondo contemporaneo, al capitalismo imperante, alla rottura degli equilibri ecologici; le sue domande sono rimaste inevase, per lo più. “Descolarizzare la società”, pubblicato nel 1970, pone una questione per noi decisiva: cosa succede quando si demanda l’educazione non ad una persona (ossia non a degli uomini) ma ad un sistema? Cosa accade quando un’istituzione, nata con il più nobile degli scopi, prende il posto di un dialogo, di un processo? Non possiamo illuderci che tutto resti come prima.
Non voglio qui sposare appieno la proposta di Illich — sebbene credo che si debba leggerla prima o poi nella vita — e tantomeno voglio nemmeno negare i grandi guadagni della scuola pubblica (sebbene occorra ricordare che per questi guadagni non è bastata affatto un’istituzione: ci sono volute persone, come Lorenzo Milani, che hanno impresso delle torsioni all’istituzione stessa). Non vi stanco troppo con il pensiero di Illich, ma potremmo semplificarlo così, cogliendo almeno i luoghi per noi più importanti: come si può organizzare tutta l’educazione attorno all’età? Esiste davvero, poi, questa età della giovinezza? In fondo la giovinezza è una grande invenzione del nostro tempo, della società borghese; in fondo a nessuno piace essere considerato bambino. Anzi fanciullezza per molti è una tensione impressionante tra ciò che sei diventato (un uomo) e il ruolo di bambino che la società ti impone.
E poi: siamo sicuri che la tensione discente-docente, su cui si fonda tutta la società che chiamiamo scuola, sia il adatta per educare? Non dico, ovviamente, il rapporto tra un adulto e un giovane, che da sempre è il cuore di ogni tradizione; intendo, più precisamente, il rapporto tra un insegnante (patentato, certificato) e un giovane (definito dalla sua anagrafica). Perché se guardiamo meglio, ci accorgiamo che le cose più importanti della vita, molto spesso, i ragazzi le apprendono fuori da questo rapporto.
Ancora: è proprio sicuro che dei programmi predefiniti (comunque li si immagini, li si formi e li si riformi) possano rispondere al desiderio di sapere di un uomo? Siamo sicuri che a un ragazzo di prima superiore che vuole capire la Grande Guerra si debba chiedere di aspettare cinque anni, piuttosto che dargli subito gli strumenti di cui avrebbe bisogno? Siamo sicuri, insomma, che la crescita non avvenga spesso nonostante il percorso di istruzione?
Dai tempi di Illich il monopolio della scuola in ambito educativo, tra l’altro, è ulteriormente cresciuto. Se un tempo la scuola era il luogo dell’apprendimento, oggi diventa luogo anche dello svago, delle relazioni, degli affetti, dello psicologo, di un giudizio sempre più raffinato su una ragazza o un ragazzo. Qualche anno fa si è deciso di inserire dei crediti formativi per ciò che uno studente fa al di fuori della scuola. Ma c’è un immenso potere che sempre gli insegnanti hanno (nel bene, soprattutto, ma talvolta anche nel male) sulla vita delle famiglie. Dice Illich: «soltanto gli insegnanti e i preti sono, fra i professionisti, quelli che si sentono in diritto d’entrare nelle faccende private dei loro clienti nell’atto stesso in cui predicano a un uditorio che è loro prigioniero».
Queste forme corrispondono a un progetto molto più ampio, sostiene l’Autore, che è quello di una società del consumo che riduce l’uomo a razionalità economica e considera tutto ciò che è al di fuori di questa razionalità un monstrum da correggere o da scartare. D’altra parte, il percorso continua imperterrito anche nelle università che, un tempo luoghi agitati dalla creatività del pensiero e dalla ricerca, sono diventate spesso enti depositari e certificatori del sapere “ufficiale”. Illich non poteva immaginare che nel 2017 il premio Nobel per l’economia sarebbe stato attribuito a un economista comportamentale per i suoi studi sul Nudge, quella ‘spinta gentile’ che permetterebbe ai cittadini di fare scelte giuste (secondo la razionalità economica) senza nemmeno accorgersene.
Ora, io non voglio entrare nel merito di una visione così forte, ma vi propongo di provare, se avrete voglia, a confrontarvi con Illich. Né la Piccioletta Barca vuole porsi in alternativa alla scuola, tutt’altro. È importante che i nostri ragazzi vadano bene a scuola, intendiamoci: lavoreremo soprattutto per questo. Ma è altrettanto chiaro che restano degli spazi vuoti per la crescita e che questi spazi vuoti chiedono qualcuno che ne abbia cura.
A differenza di altre istituzioni, ci piacerebbe che noi lavorassimo con un senso critico ampio, non semplicemente chini su un programma di crescita che lascia ampi spazi di vuoto e infinite domande irrisolte.
Vorrei che avessimo in mente che i ragazzi non sono una speciale forma vivente con protocolli biologici ed epistemologici propri, ma degli uomini, dei giovani uomini, degli uomini piccoli ma interi. Come tali dovremo sempre trattarli.
Vorrei che non ci nascondessimo mai dietro ad un ruolo educativo per poi dire (come tutti quelli che fanno volontariato) «è più quello che ho ricevuto di quello che ho dato». Non è né più, né meno: questo è un luogo in cui giovani e adulti cresciamo insieme e in cui assumere un ruolo educativo significa anzitutto dire che ci siamo per loro.
Vorrei che fossimo capaci di rispondere a ciò che i ragazzi chiedono, non a ciò di cui hanno bisogno. C’è una sottile ma drammatica differenza tra le istituzioni che si occupano di un bisogno primario (vado male a scuola) e un centro culturale: qui ci si occupa di scoprire insieme ciò di cui hai bisogno.
Vorrei, infine, che fossimo capaci di proporre ai ragazzi una rete di luoghi, di interessi, di passioni, più grande di noi e che possa infine essere il mondo stesso, in cui impareranno a muoversi. Sappiano che possono trovare un biglietto a pochi euro per andare alla Scala, che possono guardarsi attorno e poi, se lo vorranno, tornare a raccontarci.
Illich dà anche una descrizione sommaria di come immagina una società de-scolarizzata. Senza saperlo, descrive proprio il centro culturale che vorremmo essere. Gli obiettivi sono questi:
“Liberare l’accesso alle cose, sopprimendo il controllo che oggi persone e istituzioni esercitano sui loro valori didattici
Liberare la trasmissione delle capacità, riconoscendo a chi ne faccia richiesta la libertà di insegnarle o esercitarle.
Liberare le risorse critiche e creative della gente, restituendo ai singoli la possibilità di indire e tenere riunioni (…)
Liberare l’individuo dell’obbligo di adattare le proprie aspettative ai servizi offerti da una professione costituita, fornendogli la possibilità di attingere dall’esperienza dei suoi eguali e di affidarsi all’insegnante, alla guida, al consulente o al guaritore da lui stesso scelto”
Il testo di Illich termina con un’immagine potente. Se il modello dell’uomo moderno è sempre stato Prometeo, colui che ambisce sempre di più, egli immagina che possa esserci (almeno questo: che abbia il diritto di esistere) anche Epimeteo. Fratello di Prometeo, colui che ha sposato Pandora, Epimeteo non vuole andare sulla luna, ma amare profondamente questa terra, con le sue contraddizioni. Così conclude il libro, citando una poesia di Evgenij Evtušenko:
“Abbiamo ora bisogno di un nome per chi crede più nella speranza che nelle aspettative. Abbiamo bisogno di un nome per chi ama più la gente dei prodotti, per chi crede che
Non ci sono uomini poco interessanti.
Sono i loro destini storie di pianeti.
Tutto, nel singolo destino, è singolare,
e non c’è un altro pianeta che gli somigli.
Abbiamo bisogno di un nome per chi ama la terra sulla quale tutti possono incontrarsi.
Ma se qualcuno è vissuto inosservato
— e di questo s’è fatto un amico —
tra gli uomini è stato interessante
anche col suo passare inosservato.
Abbiamo bisogno di un nome anche per chi collabora con il proprio fratello profetico ad accendere il fuoco e a foggiare il ferro, ma lo fa per accrescere la propria capacità di assistere, curare e aiutare gli altri, sapendo che
Ognuno
ha un mondo misterioso
tutto suo
e in esso c’è l’attimo più belllo
e l’ora più angosciosa
solo che noi non ne sappiamo niente.
Propongo che questi fratelli e sorelle pieno di speranza vengano chiamati uomini epimeteici.”
BIBLIOGRAFIA
C. Taylor, The Ethic of Authenticity, Harvard University Press, Harvard 2018, tr.it., Il dialogo della modernità, Laterza, Bari, 2006
H. Jonas, Das Prinzip Verantwortung, Insel Verlag, Frankfurt am Main, 1979, tr.it., Il principio di responsabilità, Einaudi, Torino 1990
J. Illich, Gender. Per una critica storica dell’uguaglianza, Neri Pozza, Vicenza, 2016
J. Illich, Disoccupazione creativa, Red!, Milano, 2005
J. Illich, Descolarizzare la società. Per una alternativa all’istruzione scolastica, Arnoldo Mondadori, Milano, 1972
R. H. Thaler — C. R. Sunstein, Nudge.Improving Decisions about Health, Wealth and Happiness, Ballantine Books, New York, 2009, tr.it. Nudge. La spinta gentile, Feltrinelli, Milano, 2014