
DE-SCOLARIZZARE L’UMANO

LA STANZA DEI BAMBINI È VUOTA
LA PESANTEZZA DELLA SEMPLIFICAZIONE

La voce di uno dei nostri volontari, Marcello, studente alla Facoltà di Filosofia e maestro di pianoforte dei nostri piccoli soci.
‹‹Meglio un concerto dei Måneskin o il Macbeth di Verdi?›› Così esordisce Simona Griggio, il 5 dicembre 2021, nel suo articolo per il Fatto Quotidiano riguardo la serata inaugurale della stagione lirica che il Teatro alla Scala riserva ogni anno ai giovani under 30, cui il sottoscritto, di anni venti, ha partecipato con grande entusiasmo, essendosi guadagnato i biglietti con grande fatica. Rimango sconcertato ancor prima di leggere l’incipit dell’articolo: il titolo parla di una certa esperienza “a tu per tu (da imbucata) con i giovani tra pagelle e vestiti rubati”. L’approccio, più che con dei giovani, sembra essere quello con una rara popolazione di gorilla delle foreste del Congo, con cui l’autrice ha avuto l’incredibile fortuna di trovarsi “a tu per tu”. Con l’entusiasmo degno di un’intrepida zoologa, l’autrice ammette di aver riconosciuto diversi esemplari addirittura in metropolitana, per via del loro chiaramente inconsueto abbigliamento, tema sul quale si soffermerà più volte e forse proprio tema chiave dell’articolo.
Giunta a teatro, inizia la fase più delicata dell’intera ricerca, l’approccio con questi giovani, che si presentano da soli o in sparuti gruppi. Non sembrano aggressivi, ma occorre avvicinarli con i giusti modi… esiste forse un metodo più sicuro dell’uso del loro stesso strano modo di comunicare? No, certamente. Ecco allora fioccare un’interminabile serie di domande di un semplicismo e di una vuotezza spaventosi, ma costellate di neologismi e termini propri del linguaggio giovanile, fra cui l’autrice si districa in modo evidentemente forzato. D’altronde si parla solo dell’inaugurazione della stagione dedicata esclusivamente ai giovani; la Prima, in tutta la sua magnificenza, merita tutto un altro rispetto. L’importante è redigere un breve spaccato della serata: comunicabilità a ogni costo è l’imperativo categorico.
A parte qualche sbrigativa e generale richiesta di parere sul successo complessivo dello spettacolo, pare corretto che, trattandosi di giovani, l’attenzione sia esclusivamente incentrata su qualche paragone fuori luogo con la musica contemporanea (il parallelo Måneskin-Verdi è davvero azzeccato) e soprattutto sui sopracitati vestiti, i quali compaiono ossessivamente accanto al nome di ogni intervistato, accanto a età e occupazione, come se ri-vestissero i loro portatori di chissà quale potere sovrannaturale. Possibile che l’aspetto principale della serata debbano essere tubini, smoking e tabarri, comprati, presi in prestito o rubati? Perché non domandare piuttosto quale sia il motivo che spinge ad andare a teatro oppure quale sia il linguaggio parlato da un’opera composta quasi duecento anni fa, ma che continua ad affascinare? Sono queste, forse, domande troppo da grandi?
Lasciando da parte i toni polemici, trovo davvero triste, nel complesso, l’approccio dell’autrice a questo suo lavoro; approccio che, a malincuore, sento spesso di dover ascrivere all’intero mondo degli adulti (o meglio dei più adulti, visto che si parla di under 30) nei confronti dei giovani. Ammetto senza riserve la concezione di carattere iniziatico che un evento come una prima teatrale può acquistare nella fase di formazione e che quindi prevede, da parte dei più anziani, un atteggiamento di genitoriale benevolenza, mista a orgoglio e a un senso di indefinita nostalgia nei confronti di una nuova generazione che sta compiendo un passo importante nella sua crescita; tuttavia, avrei onestamente preferito che tale sentimento si tramutasse nell’acquisizione di un rapporto diverso, più maturo e non drammaticamente infantile.
In quest’epoca inorridiamo all’istante al sentir parlare di pregiudizi, ma senza riflettere criticamente sul loro ruolo o la loro forma, senza renderci conto che questi vivono serenamente all’interno delle nostre conversazioni e dei contenuti dei nostri media, talvolta pacificamente, talvolta arrecando danno. Questo è uno dei casi, a mio parere, in cui un malfondato pregiudizio non fa che alimentare la tanto diffusa ideologia delle nuove generazioni ignoranti, disinteressate alla cultura nella sua interezza e capaci solo di prestare attenzione a fenomeni di vita breve. Continuiamo a sentirci dire che siamo il futuro, che il mondo è nostro e che dobbiamo occuparcene fin da subito, ma non ha alcun senso riempirsi la bocca di formule altisonanti per poi continuare a trattarci come degli individui simpatici e innocui da liquidare con un’affettuosa pacca sulla spalla e un sorriso di finto compiacimento. La vita non è una prima teatrale e il mondo non assomiglia certo a un elegante abito.
Ebbene, cari più adulti, vi deciderete mai a condividere stabilmente questo mondo con noi, o continuerete a darcelo in prestito, dopo infinite raccomandazioni sul suo corretto utilizzo e per una sera soltanto, per poi riporlo con cura nel guardaroba del vostro controllo?