
IL DESIDERIO NON È POSSESSO, MA DONO — parte 2

NON SI VIVE DEL DESIDERIO DI UN ALTRO — parte 1
IL LAVORO GRATUITO

In Piccoletta Barca vengono organizzati per i volontari incontri periodici di formazione: non solo incontri di aggiornamento, ma anche occasioni di preziose riflessioni sui temi vicini al nostro operare. Ne è esempio l’incontro dedicato al lavoro gratuito, da cui è estratto l’articolo pubblicato di seguito.
Il titolo me l’ha assegnato la presidente Beatrice Gatteschi. “Vieni a fare una serata con i volontari della Piccioletta Barca”, mi dice. “Una riflessione sul volontariato, sul senso del lavoro gratuito”. “Lavoro gratuito?” ho protestato: “È un ossimoro, una contraddizione in termini! Il lavoro per definizione è retribuito.” All’epoca, prima di cambiare mestiere qualche settimana fa, facevo l’economista. Ho accettato l’invito e la sfida ad affrontare quella che appariva a tutti gli effetti come una provocazione, dal punto di vista tanto della teoria economica quanto del senso comune.
Definizione di lavoro
Il lavoro costa. Fatica, innanzi tutto. Tanto che lavorare, in Campania, si dice faticare. Ma anche in Piemonte, a sentire il poeta, “lavorare stanca”. E la fatica deve essere ricompensata. Perciò di norma il lavoro è retribuito. Lo stabilisce la Costituzione: dopo aver indicato fin dall’art. 1 il lavoro come fondamento della Repubblica, all’art 36 precisa che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro”. Affinché sia libero, il lavoro deve essere retribuito, altrimenti rischia di trasformarsi in schiavitù. E affinché sia dignitoso il lavoro deve essere retribuito adeguatamente, altrimenti rischia di trasformarsi in sfruttamento. Perciò lo stesso articolo della Costituzione stabilisce che la retribuzione del lavoratore sia “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Il lavoro gratuito appare, dunque, a prima vista, come un paradosso. Tuttavia, il nostro ordinamento ammette anche eccezionalmente un “lavoro” non retribuito: l’attività di volontariato. In questo caso, la retribuzione non solo non è prevista, ma è addirittura vietata. La legge (266/91, art. 2) stabilisce, infatti, che “L’attività del volontario non può essere retribuita in alcun modo nemmeno dal beneficiario”. Eccolo, il “lavoro” gratuito.
Volontariato, oltre l’ordinamento
Ma che cosa giustifica questa anomalia? Che cosa induce le persone a “lavorare” senza contropartita? E che cosa induce il legislatore a riconoscere la legittimità di questa eccezione alla regola per la quale ogni lavoro deve essere retribuito? La stessa legge lo spiega: “per attività di volontariato deve intendersi quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà”.
Il volontariato si qualifica innanzi tutto, beh, per il fatto di essere appunto volontario: lo fai, non perché devi, ma perché vuoi. Lo fai spontaneamente, non per interesse ma per benevolenza. Perciò possiamo dire che il “lavoro” volontario è anche “lavoro libero”: non perché sia disimpegnato, ma perché ha la forza dell’impegno autonomamente assunto. I vincoli più forti sono quelli a cui ci consegniamo liberamente. Il volontariato è insieme libero e vincolante… come una promessa, una parola data.
Come specifica la legge, infatti, l’attività di volontariato si qualifica, ancor più radicalmente, per il fine della solidarietà. E la solidarietà è, in diritto, la responsabilità che impegna i debitori di un’obbligazione (di una promessa) a onorarla “in solido”, ossia come se fossero un solo uomo, un intero indivisibile. Solidarietà, dunque, è corresponsabilità, reciprocità, cura derivante da una comune appartenenza – in una parola: fraternità.
Una delle rappresentazioni più belle è quella che ne dà Ambrogio Lorenzetti nell’Allegoria del Buongoverno, dove appare nella forma della Concordia, che raccoglie e intreccia i fili della giustizia per consegnarli ai cittadini sotto forma di una corda che passa di mano in mano.
Avendo in vista la solidarietà come suo fine esclusivo, l’attività di volontariato non è semplicemente un atto di generosità unilaterale, ma prende piuttosto il senso di una restituzione. Attraverso questo “lavoro” gratuito noi ci impegniamo a restituire alla collettività, dalla quale siamo generati, una parte – sempre minima – di ciò che da essa abbiamo ricevuto. Infatti, è alla collettività che noi dobbiamo la vita, il nutrimento, il nome, la lingua, le conoscenze, le opportunità, il capitale di beni, di idee, di storie, di opere, accumulate generazione dopo generazione: un patrimonio di beni comuni (come ricorda in un bel testo Simone Weil).
Il debito fondativo
Il volontariato non è dunque un semplice accessorio, ma risponde a una necessità. Assume il senso del pagamento di un debito. Un debito che ha carattere fondativo, che viene prima di ogni possibile scambio, affinché quello scambio possa essere giusto. Come racconta l’Etica di Aristotele (nella traduzione di Massimo Amato): “è precisamente su questo dare avendo ricevuto che <perpetuamente si ottiene, cioè> si mantiene l’unità. Questo è il motivo per cui anche il tempio delle Grazie è eretto in modo che sia sempre bene in vista <e ciò significa: vicino e alla portata di ciascuno>: perché la in sé scambievole restituzione <abbia il suo luogo, e così> sia <come deve essere>. Proprio questo, infatti, è peculiare della gratuità: <se è vero che> c’è da assecondare (rendendo grazie a propria volta) chi ha reso grazie, ciò significa, <al fondo, e fin dall’inizio>: nuovamente, ogni volta e per ognuno, essersi già sempre impegnato nella gratuità” (Et. Nic. 1133a).
Quello che abitualmente chiamiamo terzo settore, e che vive della gratuità e del lavoro gratuito, è in verità il primo: il riconoscimento di questa comune appartenenza alla comunità viene, infatti, prima di ogni possibile scambio.
Perciò le comunità che non riconoscono l’importanza della gratuità e pretendono di fondarsi esclusivamente sullo scambio mercantile rischiano di andare alla deriva. Mi riferisco, in particolare, alla deriva della meritocrazia che persegue la libertà senza eguaglianza, e l’eguaglianza senza fraternità.
Uguaglianza e opportunità
Parafrasando il Programme en quelques siècle di Armand Robin, potremmo dire che abbiamo abolito il privilegio in nome del merito, e poi abbiamo abolito il merito. Poiché abbiamo misurato il merito con la performance. E poi abbiamo fatto delle performance passate il fondamento per nuovi privilegi: dall’accesso al credito privato all’assegnazione di fondi pubblici.
Abbiamo dimenticato che il merito non è merito se non procede dall’eguaglianza dei punti di partenza, dall’eguaglianza delle opportunità. Una società che non è in grado di assicurare un’eguaglianza di opportunità contravviene non soltanto al principio di eguaglianza e di giustizia sociale, ma anche al principio del merito.
Assicurare l’eguaglianza delle opportunità, dei punti di partenza (ma quando è che precisamente si parte?), è compito dello stato, e segnatamente di quello che chiamiamo lo stato sociale. Ma soltanto dello stato? L’esistenza della Piccioletta Barca testimonia il fatto che la scuola pubblica non basta. Perché la scuola pubblica ha le sue regole, ma la pedagogia vive di eccezioni. Ogni ragazzo è eccezionale: persona, non individuo, qualificato da una vocazione. Perciò occorrono associazioni (di promozione sociale) come la Piccioletta Barca.
È questo forse il senso profondo della fraternità, che troppo spesso dimentichiamo come terzo principio assieme a eguaglianza e libertà e che in realtà è il più importante, perché capace di conciliare gli altri due. Possiamo essere davvero eguali e liberi soltanto in quanto fratelli, accomunati non meramente da una serie di diritti di base, ma anche dal senso di appartenenza che ne consegue.
Il reddito di cittadinanza ha senz’altro alcuni difetti di impostazione e di attuazione. Ma ha anche l’indubbio merito di avere aperto il dibattito su una questione di civiltà: possiamo dirci davvero uguali e liberi, se non abbiamo tutti le medesime opportunità di accesso e di partecipazione alla vita associata mediante un reddito di base e un lavoro? Potremmo chiamarlo reddito di fratellanza. In questo stesso solco si dovrebbe iscrivere anche il dibattito su imposte di successione e patrimoniali.
Ci si riempie la bocca a proclamare l’importanza dell’istruzione come investimento per il futuro. Ma bisogna che i bambini vi abbiano accesso. Che possano fare affidamento sul fatto che, così nella scuola come nella vita professionale, sarà premiato il merito e non il privilegio o la condiscendenza. Ma bisogna anche, e soprattutto, che possano scoprire e amare la cultura come una madre che li affratella, come un figlio di cui prendersi cura, come qualcosa che a loro appartiene e alla quale loro appartengono, come qualcosa che consente a ciascuno di loro di trovare se stesso e gli altri, e a cui perciò vale la pena di dedicare tempo, impegno e vita – a prescindere da ogni retribuzione.