
NESSUN OGGETTO PUÒ ESAURIRE IL DESIDERIO — parte 2

AUTUN: IL CAPITELLO DEI MAGI
CULTURA È PARTICIPIO FUTURO

L’arrivo della primavera, di quel gruppo di mesi in cui più facilmente ci si sposta e si viaggia, mi ha richiamato alla mente l’ultima tappa del mio viaggio in Calabria, durante la scorsa estate: Cosenza, l’ultima gemma di un’antologia di luoghi superbi per la loro bellezza austera, la grandiosità un po’ invecchiata, la memoria nascosta e discreta, i profumi inebrianti, i colori potenti. Perché la terra calabra mette a disposizione tutto quello che il cuore umano, gli occhi, la mente, il gusto possano desiderare per vivere bene, come tutto il Sud, come tutto il nostro Bel Paese.
Cosenza si divide in due parti. Forse, più che dividersi, si spacca, si lacera in due parti separate dai fiumi Crati e Basento. La città moderna si allunga in pianura ed è attraversata da Corso Mazzini che non è la onnipresente “principale arteria commerciale” delle guide turistiche, bensì un museo all’aperto (Mab, Museo all’aperto Carlo Bilotti), lascito di un non meglio identificato imprenditore e collezionista cosentino, arricchito nel tempo da altre donazioni. Lo si percorre zigzagando fra sculture di Giorgio De Chirico, Salvador Dalì, Giacomo Manzù, Sacha Sosno, Modigliani… bellissimo! A una estremità, in Piazza Bilotti, le statue dei Filosofi guerrieri di Giuseppe Gallo, disputano garbatamente; all’altra, l’antico monastero di San Domenico ospita il BoCs Art Museum con opere realizzate da artisti italiani e stranieri che abitano le Residenze Artistiche BoCs, ventisette piccole residenze-studio in legno di tipo nordeuropeo: un quartiere della creatività dove si producono opere che diventano patrimonio della città. Senza contare che, ad accogliere chi arriva in città, è il ponte San Francesco di Paola di Santiago Calatrava, un’arpa bianchissima, leggera, sospesa sulle miserelle acque del Crati… bellissimo!Sembra persino che ora il caldo non morda, Cosenza come New York, si direbbe!
Poi si passa il Busento sul ponte Mario Martire e ci si inoltra nella Città vecchia sul colle. Da piazza dei Valdesi ha inizio Corso Telesio, un tempo via dei Mercanti, lievemente in salita, stretto, il pavimento di pietra nera ai lati e sanpietrini in centro. Appesi ai lati, sofisticati lampioni in ferro battuto che io amo moltissimo e, a destra e sinistra botteghe chiuse non da saracinesche ma da portoni lavorati in legno con severi chiavistelli. Piazza delle Uova, via degli Orefici, Piazza degli Speziali, La Casa delle culture, un’antica liuteria, un vecchio calzolaio, una farmacia piena di fascino. La percorro estasiata: un palazzo più bello dell’altro, un trionfo di colonnine, ringhiere in ferro battuto, balconcini, affreschi… una poltrona sfondata? Ma che c’entra? E poco più in là, su una gradinata, un enorme televisore rovesciato e in piazza Duomo, magnifica cattedrale del XII secolo, riconsacrata nel 1222 alla presenza di Federico II di Svevia, un materasso con una carrozzina sfondata e uno stendino rotto, intonaci per terra, facciate sgretolate, tutto chiuso, tutto abbandonato. Man mano che cammino, lentamente mi manca il fiato: in certi punti non si respira per l’acre odore di spazzatura e il caldo ora soffoca il cuore. Ma forse non è solo il caldo, forse è il dolore, la rabbia, l’incredulità, la delusione. Ma dieci minuti fa eravamo a New York… cosa è successo? Il moderno è figlio dell’antico, l’Occidente è figlio della Magna Grecia, non è così?
Percorro avvilita i vicoli laterali, gocce di sudore ora scendono lungo la schiena, ma qualcosa improvvisamente riesce a darmi i brividi: è una saracinesca abbassata, dove Salvador Dalì, proprio lui che in corso Mazzini ha lasciato un magnifico San Giorgio e il drago, dice così:
“Istruitevi. Avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza.”
Vorrei subito alzare la saracinesca e ormeggiare in quello spazio una nuova Piccioletta Barca! C’è bisogno di tutta l’intelligenza possibile per ricucire Cosenza, la Calabria, l’Italia, il mondo intero. L’intelligenza di tutti. Ma l’intelligenza va istruita, forgiata, convogliata al bello e al bene. I bambini in Calabria hanno gli occhi grandi e neri, profondi come pozzi, si vede subito che sono intelligenti: d’altronde sono pronipoti dei Greci, nipoti di qualche anziano che ancora parla un dialetto greco. I Greci lo hanno teorizzato il bello e buono, ne hanno caricato le loro flotte curiose e coraggiose e lo hanno esportato e, quando hanno scelto la Calabria come espansione delle loro menti e del loro cuore, non si sono sbagliati e hanno seminato per l’eternità.
È figlia loro la signora che gestisce la piccola Taverna di Staìti: beviamo un caffè e quando le chiediamo il conto, ci risponde che non dobbiamo nulla: ci è grata per la nostra visita nella sua terra e come segno di riconoscenza, ce lo offre lei il caffè. È figlio loro il vecchio signore, ex guardia forestale, che ci viene in aiuto quando in una strada di campagna impervia e piena di rovi (nessun cartello ne segnalava lo stato e lo stupido navigatore ci ha condotto deciso in quella direzione!) buchiamo una gomma: ci traina con il suo fuoristrada, ci aiuta sotto il sol leone e quando gli chiediamo, grati, se possiamo almeno offrigli una bibita fresca, ci risponde che è suo dovere accogliere e aiutare chi è forestiero. Lo so, si chiama filossenia e l’hanno inventata i Greci. È ancora figlio loro quell’edicolante che, vedendoci vagare a ora di pranzo fra le strade bollenti di quella perla mozzafiato che è Rossano, dove i turisti si attendono solo dopo le sei, telefona a un conoscente che ha un piccolo negozio di alimentari e gli chiede di preparare qualcosa per i suoi nuovi amici, poi prende la macchina e ci accompagna fino a lì.
E la coppia del bed and breakfast di Gerace che, dopo una bellissima cena insieme sotto il loro pergolato, ci chiama il giorno dopo dicendo di ripassare a prendere dei vasetti di conserve che hanno preparato per noi; e la signora dell’albergo nella Sila che ci parla accorata della sua terra, ci spiega, ci presenta il suo “ottimismo consapevole” che non è ottimismo ingenuo ma neanche pessimismo: sono figli dei Greci, sobri, gentili ma non invadenti, amanti del bello, orgogliosi, coraggiosi, giusti.
Ho riflettuto recentemente, grazie allo scritto di un amico, che “creatura”, etimologicamente, è un participio futuro latino e ho subito pensato che, allora, anche “cultura” lo è: c’è intenzionalità nel participio futuro, progettazione, spinta in avanti, programmazione, desiderio, visione. E il verbo colo, di cui cultura è appunto il participio futuro, significa coltivare, avere cura, adornare, ma anche abitare, frequentare, onorare, celebrare. Questa è la cultura che dobbiamo insegnare ai bambini, quella che nascerà dall’intelligenza unita all’istruzione: nascerà sempre nuova, perché la cultura guarda al passato per spalancarsi sul futuro: nascerà per prendersi cura di Cosenza vecchia e sviluppare ulteriormente la nuova; per onorare i bronzi di Riace e creare uomini belli e forti come loro, per risanare le lacerazioni fra ordine e disordine, per cucire gli strappi fra cura e incuria, fra pulizia e sporcizia, fra giustizia e illegalità.