
PETER PAN — parte 1

PETER PAN — parte 2
C’ERA UNA VOLTA LA SCUOLA MEDIA — capitolo 3

Fine di ottobre 1958, io stavo per compiere undici anni, da circa un mese frequentavo la scuola Media e incominciavo a rendermi conto di come era organizzato il nuovo ambiente e, soprattutto, avevo conosciuto gli insegnanti. Erano tutti piuttosto anziani, non ricordo un volto giovane, ma quasi tutti segnati da rughe e occhi freddi, solo l’insegnate di lettere talvolta sorrideva. Una mattina,già un po’ nebbiosa, ci presentiamo in classe munite di due fogli “protocollo”, a righe senza margine, ben sapendo che questi fogli sarebbero stati utilizzati per i compiti in classe di italiano e latino. Quello è il giorno del primo tema in classe. Il titolo assegnato è “Primi giorni di scuola”. Titolo molto originale, come del resto tutte le attività che venivano svolte! Felice come un uccello del cielo, inizio subito a scriver la “brutta”, perché era necessario scrivere il tema due volte: prima la “brutta” e poi la “bella”. Non ho esitazioni: durante quel primo mese avevo visto molte cose diverse, soprattutto diverse da quelle vissute alla scuola elementare. Ai miei occhi di ragazzina ciò che sembrava più interessante erano le figure degli insegnanti, i loro atteggiamenti, il loro modo di mettersi in rapporto con noi alunne. Ogni professore aveva un volto particolare, una voce diversa, uno sguardo differente e io ne ero colpita, perché per cinque anni avevo avuto una maestra sola, che non aveva bisogno di parlare molto; ci conosceva così bene che era sufficiente un suo sguardo per ammonirci o esprimere la sua approvazione. Nella nuova prima media gli sguardi erano tutti diversi, quindi sapevo bene cosa scrivere.
Non ricordo molto di quel primo “maledetto” tema ma sono certa di avere scritto, nella mia ingenuità, esattamente ciò che pensavo. Era così: ero cresciuta con l’insegnamento in famiglia, a scuola e al catechismo, che si deve dire la verità, che non si devono dire bugie. Di quel tema conservo solo un ricordo perché mi fu messo davanti agli occhi e fu l’origine di una disavventura che sarebbe terminata solo nel settembre successivo alla terza media. Il tema incriminato conteneva, fra altre osservazioni, la mia impressione sull’insegnante di matematica, un’anziana signora, rinsecchita e rugosa, con un cognome tedesco, che non cito per rispetto alla sua memoria. Più o meno avevo scritto: “La professoressa di matematica è molto severa, ha gli occhiali, però si vede che i suoi occhi sono sempre un po’ arrabbiati e, quando mi interroga alla lavagna, mi guarda con gli occhi fissi, io ho paura e, se non sono capace di fare l’esercizio, le mie mani tremano e sudano, così alla fine il gessetto incomincia a sciogliersi nella mia mano. Quando non so andare avanti, la professoressa non mi dice niente, sta lì a guardarmi e, solo dopo tanto tempo, mi dice ʹVai a postoʹ e scrive qualcosa sul registro. Quando questa insegnante entra in classe io ho paura”.
La brillante insegnante di lettere, che aveva già uno spirito comunitario, un’idea collegiale della gestione della classe, insomma anticipava i Decreti sugli Organi collegiali del 1974 e le successive riforme, credette opportuno far leggere il mio tema all’insegnante di matematica. Che cosa quest’ultima abbia pensato non so, ma alcuni giorni dopo mi chiese il Diario Scolastico e sollecitò per iscritto un colloquio con i miei genitori. Stupita, perché non avevo mai ricevuto una comunicazione scritta dalla maestra, mostrai il diario alla mamma, che mi chiese: “Ti sei comportata male a scuola?”. Sinceramente non avevo alcuna idea in merito, non ero mai stata richiamata e mi sembrava di aver fatto tutto quello che veniva richiesto, anche se avevo ricevuto alcuni voti insufficienti. La mamma si presentò a scuola nell’orario di ricevimento dell’insegnante di matematica, evidentemente persona di poche parole, che emise questa sentenza: “Dica a sua figlia che la matematica, piaccia o no, deve essere studiata. Chi studia non deve aver paura di essere interrogato. Buongiorno signora”.
Incomincia così una vicenda che durerà per tre anni: io riportavo sempre voti insufficienti in matematica e i miei genitori si affrettarono a trovare un insegnante che mi desse ripetizioni. Nel mio quartiere, la persona più esperta e stimata per questo compito era un maestro elementare, il maestro Castelli, che era arrivato all’insegnamento dopo aver frequentato il liceo classico in seminario. Era un uomo piuttosto anziano, molto colto, che dava lezioni anche agli studenti delle superiori ed era molto amato dai ragazzi e dalle famiglie della mitica Bovisa operaia in cui io vivevo. Per tre anni sono stata, sempre e solo, rimandata in matematica, con l’esame di riparazione a settembre. In questa avventura “da incubo” si è poi inserito, in seconda media, un episodio che mi ha profondamente umiliata e ricordo ancora la rabbia e le lacrime che l’hanno accompagnato.
Come spesso accadeva, avevo fatto i compiti con una compagna molto dolce e brava, di nome Maria Grazia Galeaz. Fra i compiti ci sono alcuni esercizi di matematica, di cui uno in particolare così difficile che non riusciamo proprio a risolverlo. Io non so assolutamente cosa fare, ma Maria Grazia, provando e riprovando, trova la soluzione e mi spiega il procedimento, che alla fine riesco a capire con grande soddisfazione. Il giorno successivo in classe nell’ora di matematica nessuna delle alunne dice di aver trovato la soluzione dell’esercizio. Solo Maria Grazia alza la mano e afferma di aver risolto l’esercizio. Subito viene chiamata alla lavagna per svolgere il procedimento, che risulta corretto. L’insegnante di matematica la guarda e dice: “No, non l’hai fatto tu, l’ha fatto tuo fratello. Guarda che lo so, tuo fratello studia ingegneria”. Maria Grazia, sottovoce, risponde di averlo fatto da sola, ma l’insegnante non le crede. Istintivamente, dal mio banco, dico: “No Professoressa, l’ha fatto la Galeaz da sola, io ero a casa sua a fare i compiti e all’inizio non riuscivamo a fare l’esercizio, ma poi la mia compagna ha trovato la soluzione e l’ha spiegata anche a me, eccola qui anche sul mio quaderno!” Parlavo perché era la verità e non mi rendevo conto di cosa avrei provocato. L’insegnante mi lancia uno sguardo e inizia con queste parole: “Tu, prima di parlare, devi alzare la mano e chiedere il permesso, e poi si risponde all’insegnante stando sull’attenti!” Spaventata dal tono della voce, mi alzo subito e la professoressa esclama: “Tu ti permetti di contraddire un’insegnante! Proprio tu, che sei un somaro, prendi le difese di una compagna. Quanto pensi che valgano le tue parole da somaro? siediti e sta’ zitta”. Ricordo l’umiliazione per queste parole, pronunciate davanti a tutta la classe e la rabbia per non essere stata creduta mentre affermavo la verità. Ancora adesso, a più di sessant’anni dall’accaduto, mi rendo conto che questo episodio ha lasciato un segno nella mia vita. In quel momento ho deciso che sarei diventata grande, forte e non avrei più permesso a nessuno di trattarmi in quel modo. Durante i lunghi anni della mia vita di insegnante, due volte mi sono trovata in una situazione analoga: la prima volta ho afferrato il Preside per i risvolti della giacca, la seconda ho chiuso una porta con tanta violenza da farla uscire dai cardini e abbattersi sul pavimento di un corridoio. Ma di questo parlerò una prossima volta…