
BIBLIOTECA BAGGIO: COME RENDERE AMICI LIBRI E RAGAZZI

EDUCAZIONE E POTERE: L’IMPRONUNCIABILE
LEOPARDI: DALL’INFINITO AL SABATO DEL VILLAGGIO

Infinito è davvero Leopardi e certo il cor un poco si spaura al pensiero di raccontarlo ai ragazzi in un incontro di due ore. Alcuni lo conoscono, alcuni ne hanno sentito parlare, alcuni non hanno mai sentito questo nome; pochissimi hanno studiato a memoria almeno una sua poesia. Lo ha fatto quest’anno V., timida ragazzina di seconda media, dalla memoria così labile da lasciare increduli. Le abbiamo raccontato il magico esercizio della memoria, l’abbiamo invitata e sfidata a studiare piano piano, pochi versi per volta, Il sabato del villaggio ed è stato bellissimo vederla sorridere, ridere quasi, incredula lei, questa volta, quando è riuscita a recitare tutta la poesia di un fiato, tutti i cinquantuno versi. Sapevamo che, nel percorso sul desiderio, sarebbe giunto il tempo di Leopardi e lei sapeva di prepararsi per arrivare a recitare davanti all’Accademia al completo. Lo ha fatto oggi, nel giorno del suo tredicesimo compleanno con orgoglio infinito…
L’infinito: idillio sublime che, insieme ad altri cinque, nacque, o almeno fu pensato, nel 1819, quando il ventunenne Leopardi usciva dalla profondissima crisi in cui era caduto qualche anno prima, quando in lui si sforzava di venire alla luce una sensibilità che gli studi e la famiglia soffocavano: questa lunga crisi era passata attraverso due importanti tappe di conversione: la prima, intorno al 1916, fu la conversione – come scrisse lui stesso – «dall’erudizione al bello», la seconda fu quella «dal bello al vero». Passaggi fondamentali nello sviluppo interiore di Leopardi e di ogni uomo: è il momento prezioso in cui il bagaglio di nozioni e di informazioni accumulato grazie allo studio matto e disperatissimo diventa cultura, cioè patrimonio personale bello, libero, frutto di appropriazione e elaborazione personali. È il momento in cui lo studio da obbligo diventa piacere, da artificio diventa autentica ricerca e adesione.
La casa prigione, la salute compromessa, una grave malattia agli occhi che lo costrinse a una buia immobilità lo portò a questanuova maturazione. Recanati era ancora tutto il mondo che gli era concesso conoscere: nel 1819 aveva pensato, ideato e tentato una fuga, dopo avere scritto ai suoi genitori una lettera accusatoria di estrema durezza. Fallito il tentativo, meditò il suicidio. Il suo sogno ormai era varcare i monti che gli sbarravano l’orizzonte, al di là dei quali immaginava la felicità.
Dunque il giovane Leopardi, fragile nel fisico e nell’animo, siede di fronte alla siepe e mira. La siepe è il limite, il grande limite che permette al giovane poeta di fingersi nel pensier cioè di immaginare interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete; tanto grandi e meravigliosi da averne quasi paura.
Ecco che, ancora una volta nel nostro cammino, incontriamo un limite che, lungi da essere ostacolo, spalanca il desiderio, gli dà spazio e forma sconfinati, istituisce un dialogo fra sogno e realtà, fra passato, presente e futuro, crea una immensità annegare nella quale è solo dolce.
Alla fine del ’22, Leopardi ottiene di partire per Roma dove rimane sei mesi: ed è una delusione rovinosa.
Torna a casa, non guarito ma anzi rafforzato nella coscienza della vanità della vita. Riparte nel 1825 per soggiornare in grandi e mondane città, per frequentare grandi circoli letterari, inquieto, privo di illusioni, più vero, dunque. Sa e ripete, negli anni, che tutto è vano, triste e bugiardo ma il suo cuore ancora batte e sente e, dopo lunghi anni dedicati solo alla prosa, torna alla poesia, componendo le liriche successivamente dette grandi idilli, perché legati per ispirazione e poetica agli idilli giovanili. Torna per un certo periodo a Recanati e compone Il sabato del villaggio: un video ripreso dalla piccola finestra del suo palazzo, con una cura e una capacità di osservazione e introspezione inarrivabili: Leopardi osserva l’umanità e legge perfettamente la sua verità più profonda. E con quanto amore e compassione lo fa: il vocabolario di questa poesia è affettuosissimo, caldi e dolci sono i suoni, le tinte,l’atmosfera tutta.
Ecco la giovane ragazza che torna dalla campagna carica di fiori, di desideri e di speranza, pronta a ornare il proprio corpo per quel solo giorno della settimana in cui le è dato incontrare l’amore. Di fronte a lei, la “vecchierella” – bellissimo questo diminutivo, vezzeggiativo! — seduta nel colore del tramonto del giorno e della vita. Non è triste questa vecchia donna, né ripiegata su se stessa nélamentosa come talvolta sono gli anziani: vede la ragazza e si rivede in lei, ricorda e racconta un suo tempo felice.
Ecco che irrompe potente la memoria: la memoria, abbiamo detto approfondendo la lettura di Peter Pan di James Barrie, è fondamentale per vivere in pienezza il proprio desiderio. Senza memoria, il desiderio è capriccio e il reiterarsi di un volere che banalmente cambia oggetto e banalmente catalizza e disperde le energie buone del cuore.
Suona la campana a festa e il cuore si riconforta, i ragazzini vociano e giocano saltellando come agnelli, il contadino torna a casa dal campo con lenti passi, pregustando la pur modesta cena e il suo riposo. Solo il falegname non quieta ancora e con alacrità si dà da fare perché il lavoro incompiuto non gli guasti la festa. Che bello quando i giorni di festa erano così solenni e rispettati, quando davvero scandivano il passare del tempo, con le botteghe chiuse, gli “abiti buoni”, la quiete. Oggi è tutto uguale, tutto è schiacciato sul solito sfondo, si può tutto, ogni giorno.
Speranza e gioia occupano la vigilia, pronti a lasciare alla tristezza e alla noia (immenso questo vocabolo che per Leopardi non coincide certo con il non sapere cosa fare, ma piuttosto con la malinconia, con uno stato di vuoto interiore, l’affievolirsi del sentire) il giorno di festa vero e proprio. Versi amari forse, ma veri, terribilmente veri, come dialogando e confrontandoci, confermiamo tutti noi accademici, adulti e ragazzi.
E la poesia si chiude con un invito a godere della gioventù come vigilia della festa, invito che sembra espresso da un vecchio nonno, carico di anni, di esperienza e di acciacchi. Eppure non suonano angoscianti le sue parole, non riescono a rattristarci, fanno parte, in fondo, di un sentire piuttosto comune a un ragazzo.
A noi Platone ha insegnato che il desiderio è sempre giovane; a noi i Magi hanno insegnato che il desiderio non è stringere nelle mani la cosa o la persona agognata, ma alzare gli occhi e scorgere nuovamente la stella che ci invita a un sempre nuovo cammino.
Questo nostro tempo è tormentato dal comando perentorio alla felicità, alla conquista del piacere: lo gridano le immagini, la pubblicità, i video e gli influencer… ma cosa è mai questo piacere?
Il piacere è sempre futuro, dice Leopardi; ma la sua vecchierella ci dice che il piacere è anche passato, memoria felice; e il suo garzoncello scherzoso è invitato a concentrarsi sul presente.
A noi piace dunque concludere che chi è sensibile e attento al miracolo della vita, è capace di triplicare ogni piacere: perché prima lo desidera e lo immagina; poi, seppur brevemente, lo vive intensamente; poi in eterno lo ricorda. E «il poter ricordare una cosa, per quanto di poco conto in sé – appunta Leopardi nel suo Zibaldone nel luglio 1827 –, rende quella cosa importante e dolce».