
LEOPARDI: DALL’INFINITO AL SABATO DEL VILLAGGIO

PURGATORIO: CANTO XVII E CANTO XXX — parte 1
EDUCAZIONE E POTERE: L’IMPRONUNCIABILE

I nostri incontri di formazione non sono mai questioni tecniche, vorrei ricordarlo. Hanno, piuttosto, uno scopo: segnalare come la quotidiana fatica del nostro lavoro (la grammatica da correggere, la matematica da spiegare, gli esercizi di musica da impostare…) trova il suo senso nella vastità del mondo e della storia.
Nell’incontro che Luca Fantacci ci ha regalato all’inizio dell’anno, ritornava il tema della simpatia come dimensione sociale dell’uomo, come interesse originario per il destino d’altri nell’economia umana; Luca ce lo presentava come l’impronunciabile dei processi economici. Anche io, questa sera, vorrei proporre una parola impronunciabile, questa volta non riguarda l’economia e ha anche delle risonanze sinistre. Si tratta della parola potere. Se già potere è impronunciabile, il legame tra potere e educazione è sempre evitato, non si affronta mai; eppure fa parte delle cose essenziali da focalizzare, in un lavoro come il nostro. Roland Barthes, grande accademico francese, quando finalmente — dopo che il suo lavoro, guardato a lungo con sospetto dagli altri studiosi, ha trovato riconoscimento — gli viene affidata la cattedra di semiotica al College de France, tiene un discorso memorabile sul rapporto tra cultura e potere. Il potere, dice, è legione, perché si annida all’interno delle parole. E le istituzioni accademiche e educative, dice Barthes, sono luoghi di potere e non possono ignorarlo.
Ora, il potere non è un male, intendiamoci. Una serie di cose funzionano esattamente perché c’è un potere. La grammatica funziona perché esercita una forza, talvolta anche molto dispotica, sulla lingua. L’armonia è incredibilmente selettiva e rigorosa, nella musica. Il potere funziona benissimo e deve funzionare. Penso, ad esempio, che di fronte ai nostri ragazzi, si debba talvolta usare il potere e che non saperlo usare sia veramente una debolezza. Dire ‘se ti comporti male non vieni più’ e poi fingere di dimenticarselo è un azzardo. Ma il potere, quando è evidente, lascia sempre degli spazi, per sua natura. I comandamenti, non a caso, si formulano sempre al negativo: non uccidere. Il negativo lascia aperto lo spazio della libertà, il non (sebbene a noi non piaccia) è proprio ciò che ci salva dalla pervasività del potere.
Il problema non è mai, dunque, il potere che si vede, in ragione dei varchi che lascia; il problema è il potere che si nasconde, che si traveste. Ed è questo il potere di cui vorrei brevemente parlarvi questa sera, perché qui si gioca una partita immensa, una partita epocale e perché l’ambito educativo è precisamente uno di quelli in cui l’esercizio del potere finisce più spesso per nascondersi. Forse è proprio per questo che la parola è diventata impronunciabile ed è per questo che, invece, dobbiamo pronunciarla.
Vorrei partire da un’opera che ha una certa età, ma si trova in grande continuità con la Piccioletta Barca. Si chiama La pedagogia degli oppressi, è un classico dell’educazione (ma come tutti i classici, non lo si legge più, lo si dà per scontato). Viene dal Sudamerica, uno dei luoghi che, per diversi motivi, hanno sempre faticato a far sentire la propria voce in Europa, ma anche uno dei luoghi che più hanno provato ad essere interlocutori dell’Occidente; non a caso, Paulo Freire, brasiliano, è stato uno dei più autorevoli protagonisti della pedagogia del XX secolo. Freire sostanzialmente identifica due modelli educativi: quello depositario e quello liberante. Per alcuni versi non c’è niente di nuovo, rispetto alla maieutica socratica; per altri versi però, il mondo è nuovo e il modo con cui il testo si rivolge alla società contemporanea, mettendone in luce le contraddizioni, è illuminante.
L’educazione depositaria, come dice la parola, è quella che deposita sapere nelle menti: presuppone che ci sia chiaramente un educatore, depositario del sapere, e un educando a cui il sapere è destinato. Fin qui tutto (quasi) giusto. Ma Freire fa notare tutto il limite di una simile semplificazione dei processi educativi. Raccolgo qui tre idee.
- Nell’educazione depositaria, l’elargizione della cultura si fonda su un presupposto: l’ignoranza del soggetto educato. La questione non è solo quella di costruire rapporti verticali, ma è l’insistenza sulla disabilitazione necessaria del soggetto. Lo studente è stupido, deve essere stupido, è necessariamente stupido, altrimenti crolla l’intero processo. Per alcuni versi, persino, il soggetto deve rimanere stupido, per garantire la possibilità al processo di non interrompersi mai. Sei stupido alle elementari, poi alle medie, poi alle superiori e all’università. E poi sei stupido se non fai un post-laurea oppure se non hai frequentato l’università più prestigiosa. Il processo educativo si esaurisce, certo, ad un certo punto. Ma per molti versi dovrai rimanere sempre stupido anche dopo, se vorrai imparare oltre.
- Il secondo presupposto è che la materia di cui si parla è morta. L’organico deve diventare inorganico, il libero deve diventare necessario, la vita deve essere trasformata in un principio rigido e meccanico. Significa che allo studente si ripete continuamente che lui non ha nessuna possibilità di agire sulla realtà, che la realtà è destinata a rimanere tale, perché ha dei meccanismi fissi e immutabili. Per essere insegnata, la realtà deve essere stabile e rigida. Il massimo che potrà fare chi avrà la fortuna di diventare lui stesso educatore, sarà consegnare la medesima realtà (morta, inaggirabile, intrasformabile) ad altri più inesperti di lui, più stupidi di lui.
- Il terzo presupposto è che il dialogo sia totalmente irrilevante. L’errore non ha diritti, in questa visione. Chi sbaglia non ha nessun diritto a dire la sua. Al massimo si ascolta perché è politicamente corretto, ma non per capire qualcosa dall’altro. Per questo la forma di educazione depositaria genera oppressi, perché genera persone incapaci di parlare, di esprimersi. Ma lo fa non con l’evidente forza delle armi, bensì con il dispotismo pervasivo di un potere che si nasconde.
A questo modello, Freire contrappone una visione differente, che chiama educazione liberante. Anche qui c’è un potere, ma il potere è propriamente quello di modificare il mondo. Per Freire la liberazione coincide precisamente con un’idea: che la realtà è problematica, ma che insieme possiamo cambiarla. Insieme, appunto, in uno schema dove non c’è un educatore e un educando, ma due persone che si prendono cura del mondo. La risorsa educativa più grande, in questa prospettiva, non è l’educatore, ma la realtà.
Il cuore dei processi educativi è quello che Freire chiama il ‘tema generatore’: si tratta di mostrare all’altro quanto è complessa la realtà e come la si possa costruire, cambiare e riscattare solamente insieme, unendo le competenze, le forze, la fantasia e la tenacia.
In questo senso vorrei aggiungere un’osservazione che ci riguarda: non basta l’incanto. Voi sapete quanto Beatrice e io teniamo a questo tema, all’incanto, alla bellezza della cultura, alla sua seduzione. Quando parliamo di Dante, per esempio, è chiaro che ci si illuminano gli occhi e che è proprio questa passione a essere generativa, con i nostri ragazzi. Ma l’incanto da solo non è il cuore dell’educazione, lo sa bene la tradizione che vede con sospetto gli incantatori e che definisce incantato qualcuno che non si muove più. Pensate alla musica: certo che la musica incanta da sempre l’uomo, i nostri antenati amavano il ritmo e i suoni, picchiavano sui loro tamburi una musica infinita e avrebbero potuto farlo per millenni. Ma il vero miracolo è stato quando qualcuno ha incominciato a entrare in questo incanto, a capirne e studiarne i colori, i suoni, a intonare la voce ai suoni e poi a costruire strumenti con il legno e il budello degli animali e a comporre la musica e a studiarla. Lì è il miracolo, lì sta la vita, quella che l’uomo trasforma. L’incanto raggiunge il suo compimento più alto solo quando onora la libertà. Il metodo didattico di Allegro Moderato, che molti di voi conoscono, sta in questo: ache se non sei tanto capace, anche se hai poco da dare, tu ci metti 1 e io ci metto 99, ma tu è necessario che tu suoni con me.
Per Freire questo ha i toni e le frequenze di una liberazione rivoluzionaria: quelli erano gli anni. Significava rovesciare il mondo, scendere in piazza, farsi manganellare e magari anche tirare qualche manganellata. Il problema di quella visione, forse, fu l’idea che ci si deve mobilitare, come se prima si fosse del tutto fermi e fosse invece venuto il momento di cambiare il mondo. Forse oggi possiamo riprendere il tema non per fare una rivoluzione, ma per mostrare ciò che già, nella vita, accade.
Un’altra via possibile è non dire ‘dobbiamo iniziare’, ma dire ‘abbiamo già iniziato’, stiamo già trasformando il mondo. Majid Rahnema, diplomatico iraniano e grandissimo conoscitore delle periferie, nel testo Il potere dei poveri, scritto insieme a Jean Robert, parla delle società vernacolari, quelle società in cui la povertà non era miseria, in cui il povero non era nascosto o disabilitato. Il potere dei poveri, in quelle società, si chiama prendersi cura. Il tema, egli dice, non è la responsabilità, che è certo una parola molto bella, ma può essere lasciata agli esperti. Il tema è quello della cura, della cura che c’è già, di cui ciascuno è già capace. Ogni nostro bambino deve prendersi cura del mondo, ma ogni nostro bambino si sta già prendendo cura di qualche cosa: è su questa cura che agisce il suo potere, la sua capacità di cambiare il mondo, il suo processo di liberazione.