
VOLENTEM FATA DUCUNT, NOLENTEM TRAHUNT

PASSI
PURGATORIO: CANTO XVII E CANTO XXX — parte 2

Prima di Dante, un altro uomo arriva a vedere il monte del purgatorio, campione del desiderio, non a caso: si tratta di Ulisse che, cedendo all’ardore, cioè alla fiamma del desiderio, di divenire esperto del mondo, dei vizi umani e del loro valore, oltrepassate le Colonne d’Ercole, limite imposto agli uomini dalla sapienza divina, scorge da lontano una montagna e vi si dirige come meta del suo «folle volo». Sappiamo come termina il suo viaggio: il mare si apre e inghiotte lui e i suoi compagni. La via per il Giardino dell’origine è davvero sbarrata a chi pensa di poterci arrivare per via diretta con le proprie forze, guidato dalla sua hybris.
Esiste però un desiderio che non è orgoglioso: di questo tratta la Divina Commedia, dall’inizio alla fine. Simbolo perfetto del desiderio è anche la cellula più semplice dell’opera, mirabile invenzione di Dante: la terzina incatenata. Gli endecasillabi si susseguono, come tutti sanno, nel ritmo A B A, B C B, C D C e così via. In questo modo nessun verso, mai, si chiude isolandosi: come la stella dei magi non fa coincidere la fine del viaggio del desiderio con l’incontro del suo oggetto, ma rimanda a un nuovo cammino, così ogni terzina, restando caparbiamente aperta, rimanda oltre sé. Similmente, nessuno dei 100 canti si conclude con una terzina, bensì con un verso singolo, che suggerisce un oltre.
L’immensa opera dantesca, però, non è un flusso di coscienza, ma un’architettura precisa e geometricamente equilibrata; in quanto tale, essa ha un centro preciso: il canto XVII del Purgatorio. Se si esclude dal novero il primo canto, introduttivo all’intero poema, il canto XVII è preceduto da 49 canti e seguito da altrettanti; Dante ha alle spalle un regno e tre cornici e tre cornici e un regno di fronte. Il centro della commedia è un canto totalmente dedicato al desiderio.
Dante e Virgilio, appena giunti alla quarta cornice, dove si purificano gli accidiosi, sono costretti a una sosta per il sopraggiungere della notte che, come qui da noi, segna il termine dell’impegno. Virgilio utilizza la pausa forzata per spiegare la struttura del monte. Ma il dialogo tra i due fa molto più di questo: svela il modo in cui il desiderio è la forza gravitazionale di tutta la realtà creata, cioè che muove il mondo e la storia. Non c’è, in questo, margine di interpretazione: semplicemente tutto accade per amore; così, canta Dante, «convene». L’amore, però, si distingue tra naturale e d’elezione. Il primo è sempre senza errore ed è ciò che permette, ad esempio, alle stelle e ai pianeti di fare il loro corso, alla natura di generare, agli animali di sopravvivere. Il disordine appartiene solo all’amore che si assume il rischio della libertà, proprio come ha mostrato il libro della Genesi: il desiderio, allora, può anche generare il male. Sono tre le vie attraverso cui questo accade: si può peccare sbagliando l’oggetto del desiderio, desiderando con troppo vigore o desiderando con troppo poco vigore.
Si può, infatti, desiderare il male degli altri. Lo fa chi non sopporta di stare alla pari dei suoi fratelli uomini e, volendo eccellere su tutti, spera che essi cadano: è il superbo. Lo fa anche chi teme che il bene dell’altro tolga qualcosa di bene a sé e non può sopportare la vista delle gioie altrui: è l’invidioso. Lo fa, infine, chi è travolto dal desiderio di vendetta per un male ricevuto e spera nell’altrui rovina: è l’iracondo.
Non facciamo fatica a riconoscere queste inclinazioni nella vita di tutti i giorni, sia in noi che negli altri. Il mondo di oggi spesso è fondato su un’idea di eccellenza competitiva e insidiosa, per la quale il bene non può essere condiviso e ci si salva solo a patto che gli altri cadano. Talvolta il mondo della scuola si alimenta di queste logiche e, alla restituzione di una verifica, finiamo per sperare nella sconfitta degli altri per potere emergere. Anche l’invidia è spesso di casa: ce ne accorgiamo quando qualche nostro amico non sa gioire con noi o quando noi stessi ci sentiamo sminuiti dalle sue gioie, come se i loro successi denunciassero i nostri fallimenti. Non è certo raro, poi, che qualcuno si faccia trascinare dai cupi pensieri dell’ira. Sorprende tutti l’attualità della commedia, perché sono i mali che ogni giorno sperimentiamo: il viaggio di Dante davvero è il viaggio di ognuno di noi.
Gli altri quattro vizi riguardano l’intensità del desiderio. Quando è insufficiente si pecca di accidia: di questo vizio abbiamo parlato a lungo leggendo Oblomov ed è una delle accuse che più di sovente gli adulti (genitori e insegnanti) ci rivolgono. Senz’altro la pandemia ci ha messo alla prova, come fosse un’accidia globale: mettere a frutto i propri talenti per reagire al vuoto non è stato semplice per nessuno. Avarizia, gola e lussuria rappresentano un desiderio che desidera troppo e che si perde nei suoi eccessi.
Colpisce trovare nel cuore della Commedia il nostro tema così ben delineato, trasparente e cristallino. Il desiderio muove ogni cosa: come un oggetto, sfuggendoci dalle mani, cade necessariamente a terra per la forza di gravità, così l’uomo e il suo mondo necessariamente si muovono attratti dal desiderio. La qualità della vita, così, è affidata alla libertà: «libertà va cercando che è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta», sono le parole con cui Virgilio, alla soglia del purgatorio, aveva presentato il pellegrino Dante a Catone, che di questo regno è il custode.