
PURGATORIO: CANTO XVII E CANTO XXX — parte 3

LA PASSIONE EDUCATIVA
C’ERA UNA VOLTA LA SCUOLA MEDIA — capitolo 4

Gennaio 1960: durante le vacanze di Natale non era caduto neppure un fiocco di neve, non solo a Milano, ma neanche nel paesino di mezza montagna in cui abitavano i miei nonni. Così non era stato possibile neppure preparare la pista per gli slittini, né fare il pupazzo con la classica carota al posto del naso. Dopo l’Epifania eravamo tornati tutti a scuola, un po’ delusi, ma già pronti a iniziare il secondo trimestre.
Una gelida mattina, mentre la professoressa sta spiegando l’uso di cum con il congiuntivo, mi accorgo con la coda dell’occhio che qualcosa sta scendendo dal cielo, dapprima una pioggerellina tipo borotalco, poi qualcosa di più consistente … infine, i miei occhi e quelli di alcune centinaia di ragazzi, vedono chiaramente larghi e consistenti fiocchi di neve! Rapidamente i più svegli vanno a gettare un foglio di carta nel cestino, “sbirciano” dalle finestre e annunciano silenziosamente, a gesti: “Nevica! La strada sotto la scuola è già tutta bianca!”. Cum con il congiuntivo sparisce dalla nostra attenzione e la mente incomincia a domandarsi se sarà possibile trovare all’uscita uno strato di neve abbastanza consistente. Tutto questo avviene nel silenzio generale, perché sarebbe stato disdicevole interrompere la lezione per un fatto così banale come una nevicata.
Le ore non trascorrono mai, sembra che il tempo si sia dilatato, ma finalmente, alle 13, in fila per due usciamo dalla scuola. Sui Bastioni di Porta Volta, che non sono percorsi né da auto, né da tramsi stende una spessa coltre di neve immacolata. Forse qualcuno sarà rimasto in contemplazione di quel bianco lenzuolo che rendeva bello anche un luogo così anonimo, ma la maggior parte dei ragazzi si precipita in mezzo alla neve e incomincia a preparare i tipici ordigni dell’occasione: le palle di neve! Anch’io sono presa dal sacro fuoco e, dopo aver sistemato la cartella in un angolo sicuro, comincio la preparazione delle armi da lancio. Ho una certa esperienza e so che, per fare una buona palla, è necessario procedere con calma, pressare con forza la neve e aggiungere poi altra neve per rendere l’arma abbastanza pesante, per riuscire a raggiungere il bersaglio anche da una buona distanza. Incomincia la battaglia: un po’ si colpisce, un po’ si ricevono palle di neve, per fortuna non in faccia.
Dopo una decina di minuti, avverto una strana sensazione, come se il gancio di una gru mi stesse sollevando da terra. Strano, ma mi accorgo che i miei piedi, con le scarpe numero 36, non riescono più a toccare terra. Non mi era mai successa una cosa simile, anche se avevo alle spalle anni di giochi con la neve. Mi immobilizzo, stupita e anche un po’ spaventata, poi le mie scarpe riescono a toccare terra. Ma una paura ancora più grande mi aspetta: non sono stata sollevata da una gru, ma dalla mano del Signor Preside, Dott. Prof. Renato Verdina! Non lo avevo mai visto così da vicino, mi sembrava altissimo e i suoi occhi non promettevano niente di buono. Infatti, lentamente e in silenzio, il Preside estrae da una tasca interna del cappotto o della giacca una stilografica, ne svita il cappuccio, lo posiziona in modo da poter scrivere agevolmente e sfila dalla tasca del cappotto il “Corriere della sera” (piegato in due parti, come era in uso il secolo scorso) e mi rivolge le seguenti parole, che mi ricordano ancora il terrore provato, quasi fosse una sentenza di guai: “Nome, cognome, classe”. Tremando rispondo e mi viene voglia di scappare, ma è inutile, già prevedo la punizione imminente.
Tornata a casa non apro bocca, non racconto niente ai miei genitori, ma sono sicura che sulla mia testa si stanno addensando nuvole nere. Il giorno successivo, la segretaria della scuola telefona a casa, fissando un appuntamento con i miei genitori, che si devono presentare in presidenza per un problema relativo al mio comportamento. Come era in uso nel secolo scorso, i miei genitori si allarmano e mi sottopongono a un “terzo grado” per capire cosa abbia combinato. Resisto per un po’, dicendo che non ho fatto niente di male, non ho litigato con nessuno, non sono stata sgridata da nessun insegnante e non ho meritato alcun voto negativo. Alla fine, messa alle strette, racconto l’episodio delle palle di neve con stupore di mio papà, che aveva trascorso l’infanzia e la prima giovinezza in una località di montagna e mi aveva insegnato a fare le palle di neve quando ancoraportavo i guantini rosa. Comunque, se il Preside sceglieva di parlare ai genitori per il comportamento di una figlia, il pater familias sarebbe andato al colloquio, perché la scuola era un luogo degno del massimo rispetto.
Il colloquio avvenne, io non seppi cosa si fossero detti mio padre e il Preside, ma il risultato fu che il mio voto di condotta per quel trimestre fu “sette”, un voto gravissimo che, se assegnato nel III trimestre, avrebbe comportato la necessità di sostenere gli esami di tutte le materie a settembre. Io mi sentii una pessima alunna, prossima al riformatorio e pensai che, se fossi stata un personaggio del libro “Cuore”, sicuramente sarei stato Franti. In casa l’episodio non fu commentato, non ricordo di essere stata sgridata e mi guardai bene dal sollevare questioni. Solo anni dopo, non avendo mai compreso la causa reale della punizione, chiesi al mio papà di rivelarmi il contenuto di quel famoso colloquio. Il racconto ebbe sapore amaro: non avevo colpito nessuno in particolare, né avevo fatto qualcosa di diverso dagli altri; ero stata pescata a caso e punita a monito universale. Colpire uno per “insegnare” a cento!
E per la seconda volta mio padre non commentò: aveva rispettato le decisioni della scuola, ma ancora chiaramente gli bruciava che un uomo adulto si fosse permesso di mettere le mani sulla “luce dei suoi occhi”. Così andava la giustizia scolastica nel 1960: cosa succederebbe oggi?