
COS’È LA CULTURA?

FUTURO
NEL MERITO DEL MERITO

Tra le novità più sorprendenti della legislatura appena incominciata che hanno fatto notizia, vi è la scelta di ribattezzare alcuni ministeri. Il nome alle cose è un fatto politico: l’indagine di Michel Foucault sul tema del potere ci ha istruiti, ormai da decenni, a proposito del potere del linguaggio; in tempi in cui si discute a proposito dei pronomi, c’è poco da meravigliarsi, né da scandalizzarsi. È diritto di ogni nuovo governo utilizzare, nelle forme che ritiene più utili (e nei limiti della costituzione), anche il potere del linguaggio; è accaduto più volte, nella storia democratica del nostro Paese, che i nomi dei ministeri mutassero.
La scelta di ribattezzare il vecchio Ministero della Pubblica istruzione con il nome di Ministero dell’istruzione e del merito, tuttavia, ha sorpreso e addolorato molti operatori della scuola, convinti che la questione del merito sia oggi una maschera per nascondere una nuova forma di privilegio. Un testo recente del filosofo statunitense Michael Sandel, La tirannia del merito, può essere l’opera di riferimento per un ripensamento critico di uno dei miti più comuni e abusati del nostro tempo, soprattutto in un paese come l’Italia, che da decenni cerca di contrapporre la meritocrazia al privilegio. Non è su questo, tuttavia, che vorrei soffermarmi: sono personalmente d’accordo con Sandel e sono anche piuttosto felice che il dibattito mediatico abbia portato a conoscenza di molti la sua opera, che merita di essere letta.
Vorrei, invece, al di là di questa mia personale posizione, dare una chance alla parola merito. Non c’è dubbio, infatti, che una società abbia bisogno anche di una figura distributiva dell’esercizio della giustizia e non c’è dubbio che la sapienza educativa non possa fare a meno di riconoscere i meritevoli. Da che mondo è mondo, in fondo, la merenda di metà mattina è per chi se l’è meritata (merenda deriva proprio da merito). D’altra parte, la Piccioletta Barca si ispira proprio all’articolo 34 della nostra costituzione, quello che chiede di garantire i gradi più alti dello studio agli studenti «meritevoli ma privi di mezzi». Di merito, dunque, è lecito parlare ed è lecito parlare anche di merito e di educazione.
La sua ambiguità, tuttavia, è generata dal fatto che non mai è chiaro cosa sia il merito, perché non si entra mai (perdonate) nel merito del merito. Merito, persino etimologicamente, significa una parte del tutto, significa ricevere la parte che spetta. Ma, appunto, la parte che spetta non è anzitutto il premio, ma la propria responsabilità nei confronti del tutto. Parafrasando una canzone di Gaber, merito è partecipazione. Non c’è dubbio che qualunque società debba premiare chi rischia di persona per fare la propria parte nel corpo sociale, chi porta a compimento quella parte che lui solo può portare, a beneficio di tutti e del progetto comune. Prendere il premio senza prendere parte al progetto comune non è merito, ma razzia.
Se la nostra istruzione intende insegnare il merito, dunque, deve anzitutto chiarire a cosa i nostri studenti debbano prendere parte. A quale realtà, a quale sogno di umanità, a quale mondo futuro possono contribuire, perché non c’è alcuna parte senza un tutto. Negli anni in cui la Costituzione Italiana è stata scritta, questo tutto era un orizzonte condiviso: si trattava di ricostruire insieme un mondo devastato dai conflitti, di ripensare una società giusta e pacifica, dopo decenni di dittatura. Il tutto lo si respirava come l’aria fresca della liberazione: con l’ampiezza di questo respiro, all’opera comune tutti erano chiamati e ciascuno doveva avere i mezzi necessari per compiere la sua parte. Ma proprio questo respiro, oggi, è venuto meno ed è con il suo tramonto che il merito è diventata un’abilità personale, individuale, isolata dall’opera comune. Non si merita più il mondo, si meritano degli avanzamenti, dei riconoscimenti, si merita uno stipendio e, alla fine dei conti, una vita serena. Il merito è diventato un privilegio perché ci siamo concessi il lusso di non rispondere mai alla domanda sul tutto. Istruire dei cittadini al merito significa renderli parte di una visione comune del mondo e, se questa visione non c’è, provare a costruirla con loro.
Il solo strumento di merito di cui siamo dotati, invece, è il voto: esso misura una capacità personale, un’attitudine individuale, un impegno solitario e talvolta persino egoista, di fronte al quale prendere parte o meno al tutto diventa assolutamente irrilevante. In molti casi, anzi, il voto genera competizione e il merito diventa ‘contro’ qualcun altro: un ragazzo che torna a casa con un bell’otto, si sentirà subito domandare «cosa hanno preso gli altri?»; l’intenzione è implicita nella domanda: se gli altri sono andati male, quell’otto avrà un grande valore, ma se la media della classe è stata 10, allora il tuo voto vale pochino. Ci sono università, mi raccontano alcuni colleghi, in cui i voti agli esami devono essere necessariamente distribuiti secondo una curva gaussiana: pochissime eccellenze e una massa di mediocrità, in modo che essere tra le prime comporta una lotta spietata.
Se non siamo in grado di avere una percezione del tutto, una visione dell’intero, un’idea di mondo e di società, se non siamo in grado di contagiare i nostri ragazzi con la passione per quest’opera comune, se non esiste un progetto comune per la cui realizzazione i giovani possano chiedere credito, allora non vi è alcuna ragione per premiare i più bravi: invece che prendere parte, insegniamo loro a prendere la loro parte; ma per fare questo non c’è bisogno di un ministero: la ricompensa, in fondo, se la prenderanno da soli.
Se, poi, riflettiamo meglio, ci accorgiamo che la scuola dell’obbligo (il ciclo scolastico di cui si occupa il suddetto ministero), dovrebbe non solo chiarire la bellezza del tutto, ma anche propiziare per ogni ragazzo la scoperta della sua specifica parte, all’interno del tutto. Un orientamento scolastico, come quello del nostro Paese, che si basa per una parte rilevantissima sul sistema dei voti, non mi pare all’altezza del compito: se esistono scuole di serie A e scuole di serie B, a cui corrispondono studenti di serie A e studenti di serie B, il tuo posto nel mondo non lo trovi con la coraggiosa opera della scoperta di te stesso, ti viene assegnato d’ufficio.
Se vogliamo sognare una società del merito, un’istruzione del merito, dobbiamo tornare a interrogarci sul tutto, dobbiamo tornare a sognare insieme un mondo, a condividerne le speranze e le paure, a credere davvero che questo mondo non ci sarà fino a che tutti non avranno fatto la loro parte. Più saremo capace di immaginare un mondo complesso in cui davvero ciascuno ha un posto, più saremo capaci di coinvolgere i giovani nella costruzione di questo progetto, più sapremo mostrare loro di quanti talenti diversi questo mondo abbisogna, più saranno loro stessi a trovare la propria pare. E il mondo che verrà gliene renderà merito.