
NEL MERITO DEL MERITO

LA MUSICA AL CENTRO
FUTURO

Ci viene quasi automatico, ovvio e scontato, immaginare che il futuro sia davanti a noi e di esserci lasciati il passato, come si dice, dietro alle spalle. Può sorprendere allora scoprire che per i Greci (e non solo per loro, era così anche in una delle civiltà precolombiane, gli Aymara) il futuro è dietro le spalle, mentre ciò che sta davanti è il passato. Non è difficile capire perché: in fondo l’unica cosa che possiamo davvero vedere, davanti a noi, è il passato: il futuro ci coglie di sorpresa, proprio come qualcuno che sopraggiunga alle nostre spalle.
Le lingue moderne portano i segni di questa inversione. Parole di origine latina, come pro-gresso o pro-getto, indicano ciò che sta davanti; altre, come pro-genitorie, indicano un retrocedere nel passato. La preposizione latina pro suggerisce, fra gli altri, questi due significati: davanti e prima. Anche in altre lingue si trova la stessa ambivalenza: l’inglese before significa prima, ma anche davanti, così come il francese avant; after è dopo, ma talvolta significa dietro, come in running after someone.
La lingua conserva in sé, allora, il senso di una realtà misteriosa, difficile da pensare e tuttavia impossibile da trascurare: qualcosa che da un certo punto di vista ci sta sempre davanti, ma per altri versi è invisibile. Il mito del progresso, le nostre competenze tecniche e scientifiche ci danno l’impressione di vederci chiaro, ma mai come oggi la realtà ci coglie impreparati: è successo per la pandemia, ma anche per la guerra alle porte dell’Europa o per i cambiamenti climatici che, pur essendo di fronte a noi, abbiamo scelto per decenni di non vedere.
Certo è che il futuro è una dimensione fondamentale dell’esperienza umana. Lo è al punto che ‘futuro’ non è altro che una forma verbale del più importante di tutti i verbi: essere. Più precisamente, si tratta del participio futuro latino di sum. Nella nostra lingua abbiamo perso la dimensione futura del participio (così come quella dell’infinito): ci occorre una perifrasi, un giro di parole, che esprima ora l’intenzione, ora l’imminenza, ora la necessità. Mentre cantante è colui che partecipa del canto e cantato è ciò che ne è stato espressione, canturus significa al contempo ciò che stiamo per cantare, ciò che abbiamo deciso di cantare, ciò che siamo destinati a cantare: è un canto del tempo, della volontà e del destino, insomma.
Le parole italiane che ereditano questa desinenza, ne portano tutta la ricchezza. Difendere la natura non significa solamente difendere ciò che è nato, ma una vitalità che continua incessantemente a nascere, che vuole sbocciare, che è destinata a generare. Ed è bello pensare che una creatura non sia mai compiuta nel momento in cui viene al mondo, nemmeno per il suo creatore.
Ma futuro è ancora più importante: è il modo in cui noi partecipiamo dell’essere, di ciò che già c’è ma che, allo stesso tempo, deve ancora compiersi. Il nostro futuro, dunque, non avviene mai nonostante noi: si intravvede all’orizzonte (è in procinto di essere), interpella la decisione (ha l’intenzione di essere), ci vincola a sé (è destinato a essere). In questo si distingue dal suo apparente sinonimo, avvenire, che, contenendo un verbo di moto, indica ciò che ancora non c’è, ciò che deve ancora arrivare da altrove e che non può essere, perciò, ancora conosciuto, non ci coinvolge, non chiede permesso. Nella complessità della parola, d’altra parte, è già scritta la ricchezza del cammino che ci sta di fronte quest’anno, la ricchezza del nostro stesso futuro.
Come ogni anno, i ragazzi raccolgono le parole che il tema suscita in loro: sbocciano così speranza, dono, paura, cammino, pensiero, memoria, destino. Un ragazzo di prima media, che si affaccia per la prima volta al mondo dell’accademia, suggerisce coraggiosamente: Piccioletta barca…