
LA CORSIA DI MEZZO

LIBERAZIONI E FASCISMI
IL FUTURO IN MOVIMENTO

Non c’è futuro senza movimento. Se l’homo sapiens non si fosse mosso dal suo giardinetto centomila anni fa, del resto, oggi saremmo tutti uguali e tutti schiacciati nel Corno d’Africa.
Pare che da sempre i neonati si addormentino placidamente nelle braccia della mamma che si muove sballottandolo energicamente, in virtù di quell’atavico dondolio impresso dal cammino delle donne primitive, che si spostavano da un insediamento all’altro, tenendo i loro piccoli legati al petto o sulla schiena con grandi fasce, che bello!
Il nostro grande tema del futuro incontra oggi il grande tema della migrazione dei popoli, anch’esso nostro, di ogni uomo, da sempre. Prima di approfondirlo in un’opera letteraria, andiamo a scovarlo nell’arte, guidati da artisti italiani e non, che a esso hanno dedicato la potenza della loro strabiliante creatività.
Noi Italiani, che lo si voglia ricordare o meno, siamo un popolo emigrante e non appena la pittura uscì da chiese e palazzi per incontrare il vero, individuò subito nell’emigrazione un soggetto cui si doveva dare voce. Giocolieri della parola, alla Piccioletta Barca, abbiamo intrecciato il futuro dei migranti con altre parole, perché la migrazione non è di un solo colore deciso e uniforme, ma si modella di sfumature, forme, sogni e progetti diversi, come tutti diversi sono gli stili, le tecniche, le idee, i materiali e i messaggi con cui gli artisti tessono la loro narrazione.
C’è certamente una precarietà nel futuro dell’emigrante: quella che domina l’imponente tela del 1896 di Angiolo Tommasi, nato non a caso a Livorno, dove un grande porto salutava quotidianamente navi fumanti dirette al nuovo mondo.
Gli emigranti, si intitola ed è un’epopea della emigrazione, di oltre quattro metri per due, che ritrae la banchina del porto della sua città, popolata da figure assiepate sul molo in attesa dell’imbarco. Sono i numerosi ritratti femminili a colpire in modo particolare i ragazzi: una donna, in primo piano a destra, con il viso abbandonato sulla mano, di umile aspetto, buca la tela con la tristezza della sua posa. Ci sembra di poter percepire ogni suo pensiero, l’ansia, la rassegnazione, soprattutto, a una scelta obbligata. Questa sconsolata figura è il vertice di un triangolo, la cui base è formata da altre tre donne tanto diverse da lei: la prima, a destra, seduta su un ingombrante bagaglio, sembra di uno stato sociale migliore: assorta nei suoi pensieri, ha una compostezza che lascia trasparire un sentimento meno cupo. Tutte diverse sono le mamme! Di spalle ne vediamo una bella, avvolta in uno scialle rosso, con un bambino addormentato sulla gamba: appare subito una tenacia diversa nella sua postura, una forza che regge il suo corpo e il suo animo. Persa negli occhi del suo bambino, che allatta amorevolmente, la terza donna è lì ma potrebbe essere ovunque. Partire per garantire un futuro a quei piccoli dà un coraggio a queste mamme che sembra vincere la precarietà che hanno davanti. Più a sinistra una donna incinta, fa del suo pancione un piano d’appoggio per le braccia: guardandola, viene da augurarle buon viaggio con una forza speciale. Due bambini anche sulla banchina, tanti uomini, anche anziani: su ognuno di loro si potrebbe creare un racconto, tanti sono i dettagli che emergono da questi ritratti accuratissimi e pieni di verità.
Costruitosi, grazie al coraggio dell’emigrazione, un nuovo futuro, talvolta roseo e superiore alle sue aspettative, l’uomo si guarda comunque indietro, chiamato da quel pungente formicolio del cuore che si chiama nostalgia. Campione dell’immagine del futuro come nostalgia (dolore del ritorno) è Chagall: gravato dalla doppia sciagura di essere ebreo e pure pittore, egli abbandonò ventenne la sua Vitebsk per non tornarvi più. Ma Vitebsk compare spessissimo nei suoi dipinti, in quella inconfondibile figura di chiesa ortodossa con una o più cupole a cipolla, saldata al suolo proprio come la radice sopra la quale il pittore può volare immerso nei suoi meravigliosi colori.
“Partire è un poco morire”, recita un vecchio proverbio e in effetti al futuro si lega inesorabilmente una perdita: ed è importante riflettere con i ragazzi che tale perdita non è tanto legata all’emigrazione, allo spostamento fisico dell’uomo, quanto allo scorrere stesso del tempo: per questo la perdita è inesorabile, perché non si può che perdere qualcosa nello srotolarsi delle stagioni umane. Sapiente l’uomo che saprà colmare la perdita del vecchio con l’acquisizione del nuovo: è l’atteggiamento interiore a fare la differenza.
Con un’idea e una tecnica di fronte alle quali non si può che rimanere sbalorditi e commossi, Bruno Catalano ha saputo dare voce alla perdita che grava sulle spalle del viaggiatore migrante. Catalano nasce in Marocco nel 1960 e a quindici anni è costretto a emigrare con la famiglia a Marsiglia, dove per lungo tempo fa il marinaio e poi l’elettricista. L’elaborazione dello sradicamento dalla sua terra diviene sua musa ispiratrice e, in un incontro personalissimo con l’arte, dà vita a gruppi scultorei di fortissimo impatto. Le sue statue, chiamate comunemente I viaggiatori, sono pensate per essere collocate in scorci marini di particolare suggestione, come è avvenuto a Venezia, dove, sullo sfondo di piazza San Marco, un emigrante sbarca con la sua valigia e il passare del tempo lentamente lo consuma, condannandolo alla perdita della sua fisionomia e della sua identità.
Il futuro è certamente attesa, un’attesa che non solo e non sempre prelude a un definitivo, ma che spesso si riempie in sé di definitivo: l’attesa è un tempo, ma è anche uno spazio da abitare e da valorizzare nella sua essenza, è un luogo da riempire di significato: l’attesa, talvolta, è il significato stesso della vita umana come magistralmente narrano i grandi capolavori di Buzzati. Maestro nel descrivere artisticamente il significato profondo dell’attesa è l’artista albanese Adrian Paci. Pittore, scultore, fotografo, Paci che – come gli altri artisti di cui ci stiamo occupando ha conosciuto da vicino la migrazione di massa del suo popolo – si esprime potentemente anche nei video brevi, nuova e interessante frontiera artistica. Mostriamo ai ragazzi Centro temporaneo di permanenza del 2007: in un aeroporto, un gruppo di uomini e donne di età diverse, dai tratti somatici e dalle espressioni diverse, sale lentamente la scaletta di un aereo, la riempie e attende, attende, attende mentre sullo sfondo aerei arrivano e partono in continuazione… Piano piano, l’inquadratura si allarga e, con un brivido nella schiena, scopriamo che attaccato a quella scaletta non c’è nessun aereo… “È un imbroglio”, gridano istintivamente i ragazzi. Forse sì, forse invece l’aereo arriverà, forse c’è una capacità di attendere che rende l’uomo veramente umano.
Più di tutto, oggi almeno, il futuro è fuga, tanto è vero che le ultime opere sono quelle che coinvolgono maggiormente i nostri piccoli accademici, testimoni inermi, come tutti noi, delle continue stragi del mare.
Ai Weiwei, coraggioso artista cinese, attivista dei diritti umani, che ha pagato il suo coraggio con la detenzione e la distruzione totale del suo atelier, crea nel 2017 Law of the Journey, sospeso in un immenso salone della Galleria Nazionale di Praga. È un gommone, lungo 70 metri, stipato di 258 manichini gonfiabili, alcuni dei quali non ce l’hanno fatta e sono sprofondati senza vita sul pavimento. Tutto è gonfiabile e tutto si sgonfierà un giorno: Weiwei lavora anche così, creando opere che portano in sé il seme della mortalità, come l’uomo. Forse anche la fuga degli uomini dai loro paesi un giorno finirà.
Jason de Caires Taylor, un po’ inglese, un po’ della Guyana, classe 1974, per le sue opere chiede ospitalità al grande oceano: costruite con un tipo di cemento a ph neutro, habitat ottime per la vita marina, le sculture di Taylor non hanno bisogno né di introduzione, né di commento. La zattera di Lampedusa del 2016, ispirata a La zattera di Medusa di Gericault, è forse la sintesi di tutte le parole del futuro: nei volti di chi vive la sua fuga, nei corpi di chi è morto fuggendo c’è precarietà, nostalgia, mancanza e attesa.
Alla fine però c’è un miracolo: le opere di Taylor, per la loro stessa natura, attraggono e si ricoprono nel tempo di meravigliose colonie di coralli colorati: perché per chi sa coltivare la speranza e la fiducia nell’Uomo, il futuro è così: un giardino di bellezza sovrabbondante e gratuita.