
SULL’OCEANO: STORIA DI UN POPOLO

LA TERZA F
SPERANZE

La Fondazione Cariplo ha pubblicato il mese scorso il Primo rapporto sulle disuguaglianze. Ne emerge un quadro sconfortante. Non solo perché è fosco e si rabbuia, ma perché sembra viziato da un’intima contraddizione che ne provoca il continuo deterioramento.
Il dato più drammatico: negli ultimi vent’anni la povertà è quasi triplicata. Dal 2005 a oggi, il numero di persone povere in Italia è aumentato da 1,9 a 5,6 milioni. Le famiglie in povertà assoluta, prive del necessario, hanno superato il 7% della popolazione.
Al contempo, è aumentata anche, e ancora di più, la ricchezza. Un paradosso solo apparente. Un contrasto che non implica alcuna contraddizione, ma deriva anzi dalla coerenza implacabile, ferrea, fredda dell’aritmetica: ciò che si toglie da una parte si aggiunge dall’altra.
Gli economisti classici la chiamavano “rendita”. Sta a indicare quella quota del reddito che si guadagna senza lavorare, a differenza del salario, e senza assumere alcun rischio, a differenza del profitto d’impresa. Un reddito che si guadagna per il solo fatto di possedere una risorsa scarsa. Un guadagno che non riflette un contributo alla produzione, bensì un prelievo. Un trasferimento da chi non possiede a chi possiede, che sembra scimmiottare l’ammonimento evangelico: “a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”.
A scanso di equivoci, a stigmatizzare la rendita non sono pericolosi radicali, socialisti, rivoluzionari, bensì sobri economisti liberali inglesi, fondatori della professione economica e precoci fautori del libero mercato. Purtroppo le generazioni successive, pur continuando a celebrarli come padri nobili, hanno dimenticato la loro lezione. Da cui, forse, la favola nostalgica di Carlo Emilio Gadda: “Adamo Smith e Davide Ricardo erano economisti”.
La forma più emblematica di rendita è l’affitto – tanto che in inglese l’una e l’altro si chiamano con la stessa parola, rent. In effetti, la parte preponderante dell’affitto (tolta una componente per compensare il lavoro di manutenzione) costituisce una remunerazione che spetta al proprietario per il solo fatto di possedere un immobile. E quanto più scarsi e ambìti sono gli immobili, tanto più ne aumenta il costo. Gli effetti sono drammatici soprattutto in città attrattive (per il denaro, forse, ancor più che per le persone) come Milano, dove, a partire da Expo 2015, gli affitti sono aumentati mediamente del 44% (e i prezzi delle case sono quasi raddoppiati), mentre il reddito da lavoro è cresciuto soltanto del 5%. Non è un caso che Milano sia la città italiana con la diseguaglianza più elevata.
La rendita immobiliare (come quella finanziaria) innesca un circolo, virtuoso solo per alcuni, in cui la ricchezza produce un reddito che a sua volta alimenta l’accumulazione di ricchezza, contribuendo ad allargare le diseguaglianze.
Proprio a tutela del principio di eguaglianza, l’art. 53 della Costituzione stabilisce che “il sistema tributario è informato a criteri di progressività”: chi ha maggiore disponibilità di mezzi dovrebbe essere chiamato a contribuire in misura più che proporzionale a sostenere le spese pubbliche. Purtroppo, nel nostro sistema fiscale, il criterio progressivo si applica quasi soltanto al reddito da lavoro. Le rendite sono tassate meno dei salari. Non è, dunque, un caso che il divario si allarghi sempre di più.
Il rapporto della Fondazione Cariplo ha il merito di gettare luce anche su un’altra dimensione della diseguaglianza che sta particolarmente a cuore alla Piccioletta Barca: la povertà educativa. Il rapporto evidenza come le due dimensioni siano legate: chi è povero fatica anche a studiare, ad avere un rendimento scolastico adeguato, ad accedere a gradi superiori d’istruzione. Giustamente la scuola è indicata come possibile strumento di riscatto.
Ma ecco la contraddizione! Il dato precedente rischia di smentire questa possibilità: i compensi del lavoro promessi a chi studia sono schiacciati dalla rendita. Senza contare altri privilegi, clientelismi, illegalità, che troppo spesso nel nostro Paese bloccano la strada agli spiriti liberi per aprirla ai servili.
Certo, come pure il rapporto rileva, combattere l’abbandono scolastico consentirebbe di ridurre la criminalità e di rafforzare la coesione sociale, la vita democratica e perfino la ricchezza nazionale. L’istruzione è un bene pubblico. Ma sarebbe altrettanto importante che fosse anche un bene privato, ossia che producesse benefici per gli studenti stessi (aldilà del gusto di studiare, beninteso!). Invece, lo studio conviene a tutti, tranne a chi lo pratica.
Non c’è da meravigliarsi che cresca fra gli studenti l’ansia e il disagio. E parlo dei miei studenti, quelli privilegiati, che sono arrivati a fare l’università, e per giunta privata. Sono stato invitato recentemente a partecipare a un podcast sul tema. Un’affermazione di uno studente mi ha colpito su tutte: “la nostra ansia deriva dall’estrema competizione congiunta alla mancanza di prospettive. Come se eccellere fosse necessario, ma sempre insufficiente”. In effetti, l’adozione di meccanismi competitivi congiuntamente alla mancanza di risorse e di sbocchi, rischiano di trasformare il sistema dell’istruzione in una gara senza premi in cui alcuni corrono sempre in salita.
Combattere la rendita, in tutte le sue forme, è un presupposto indispensabile per ridare ai ragazzi (e a chi li sostiene) fiducia e speranza nello studio come strumento di riscatto economico e sociale, oltre che morale.