
BONA VERBA LENTE MOVENT, MALA EXEMPLA CELERRIME TRAHUNT

IL DONO DELLA SPERANZA, LA SPERANZA DEL DONO
DANTE E IL (SUO) FUTURO — parte 2

L’indovino Tiresia diceva a Edipo che è tremendo il sapere quando fa male a chi sa, cercando di sfilarsi dal suo ruolo e supplicando il re, più cieco di lui, di lasciarlo andare via in silenzio, cosa che avrebbe consentito a ciascuno dei due di reggere meglio il proprio destino (Edipo re, 316–320). Umanissimo stato d’animo che facilmente sentiamo di condividere: concludevamo infatti la scorsa riflessione dicendo proprio che conoscere il futuro chiede sempre il coraggio della responsabilità: lo chiede a chi è chiamato a rivelarlo e lo chiede a chi, appresolo, deve farne qualcosa.
Ai profeti della Divina commedia questo coraggio non manca, e se poco vale per chi vuole soltanto fare del male, come Farinata o Vanni Fucci (E detto l’ho perché doler ti debbia Inf. XXIV, 51), è certo nobilitante in chi parla per instradare Dante lungo una via che, a sua volta, necessità di coraggio. Mittĕre è il verbo latino che significa “inviare, mandare” e da esso deriva la parola italiana missione, che completa e porta a compimento il valore della profezia: senza missione, la profezia non serve a nulla ed è destinata a spegnersi nel dolore di chi la riceve.
Come abbiamo anticipato, è Cacciaguida il nobile trait d’union fra profezia e missione: nel suo lungo discorso, infatti, l’amara anticipazione di sofferenza e fatica sfuma, in modo naturale, verso una vera e propria investitura, senza la quale il viaggio di Dante nell’oltremondo avrebbe davvero poco senso. Dante, appreso dall’avo quanto dolore l’aspetti, sente e dichiara un comprensibile timore: parendogli saggio essere previdente e non precludersi la possibilità di rifugiarsi in altre città, una volta che dovrà lasciareFirenze, un dubbio profondo lo pervade: riferire tutto quello che ha visto lo renderà ulteriormente sgradito a molti; tacere gli toglierà onore e la gloria in cui confida.
Certo che parlare aggiungerà sofferenza a sofferenza, fatica a fatica, dice Cacciaguida,
Ma nondimen, rimossa ogne menzogna, tutta tua visïon fa manifesta; e lascia pur grattar dov’ è la rogna. (Pd XVII, 127–129)
Dante deve parlare, deve rendere manifesta la sua visione: pur sgradevoli all’inizio, i suoi versi, una volta digeriti, diventeranno nutrimento vitale per chi saprà cibarsene in modo corretto.
Riferire cose belle – spieghiamo ai ragazzi – è proprio di anime non invidiose e richiede il coraggio della generosità e della libertà; riferire il male è importante, se le parole dure diventano cibo utile, metabolizzabile: capace cioè di creare trasformazione buona in chi lo ascolta e nel suo mondo. Se quanto si riferisce non è in qualche modo molla di trasformazione, è solo pettegolezzo vacuo.
Dopo Cacciaguida, San Pietro pronuncia la terza profezia:
«e tu, figliuol, che per lo mortal pondo/ ancor giù tornerai, apri la bocca, /e non asconder quel ch’io non ascondo». (Pd XXVII, 64–66).
Siamo vicini alla mèta e, senza giri di parole, Dante, che si è appena laureato in fede, riceve dal suo esaminatore il duplice ordine di aprire la bocca e non nascondere quanto il santo non gli ha nascosto.
Terza profezia, questa; la seconda è quella del trisavolo, e la prima? La prima in ordine di apparizione viene al pellegrino da Beatrice che, se cede al nobile Cacciaguida il privilegio di svelare il senso delle profezie, si rivela come colei alla quale siamo debitori della Comedia come insuperabile opera letteraria: un po’ già lo sapevamo, perché è per Beatrice e grazie a Beatrice che Dante compie il suo viaggio, ma la centralità della potenza di questa donna e di questo amore si materializza in cento canti divini allorquando, terminata la processione simbolica che rappresenta la vicenda storica della Chiesa, Beatrice, rimasta a custodia del carro/chiesa, circondata dalle sette donne-virtù, si rivolge a Dante dicendo:
“Però, in pro del mondo che mal vive, /al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, / ritornato di là, fa che tu scrive”. (Pg XXXII, 103–105)
C’è dunque un mondo che vive male e a Dante viene ordinato di scrivere quello che vede, una volta tornato in quel mondo. Potente e struggente appare la rima fra vive e scrive, fra “vivere” e“scrivere”: la vita non può prescindere dalla sua scrittura e la scrittura ha senso in tanto in quanto si occupa di vita: la missione di Dante è scrivere; il senso compiuto del viaggio oltremondano è la Divina Commedia stessa: vivere e scrivere è la missione civilizzatrice di Dante.
“Sono convinta – sostiene la scrittrice ungherese Agota Kristof –che ogni essere umano è nato per scrivere un libro e per nient’altro. Colui che non scriverà niente non ha fatto altro che passare sulla terra senza lasciare traccia”.
Vivere e scrivere, forse, è il compito di ogni uomo che voglia contribuire a trasformare il mal vivere in vita buona: Dante lo ha fatto per noi, per sempre.