
IL GRANDE GIOCO

TONNELLATE DI BENE
Al maestro, con affetto

Mi piace guardare, a volte, vecchi film, quelli in cui sembra di sentire il rumore della pellicola che gira e gli attori — ah, gli attori…! — incarnano una idea di eleganza perduta. E’ cosi, che in coda all’estate, mi sono imbattuta ne “La scuola della violenza” (ma preferisco il più dolce e appropriato titolo originale, “To sir, with love”) pellicola del 1967, diretta da James Clavell e interpretata da Sidney Poitier.
La trama è una facile raccolta di stereotipi. Mark Thackeray è giovane, nero, ingegnere e disoccupato. Decide di accettare il posto di insegnante in una scuola superiore nei sobborghi di Londra, ricettacolo degli studenti cacciati dalle altre scuole della città. Gli tocca la classe all’ultimo anno, dove è accolto da ragazzi svogliati, insolenti, decisi, con piccole e sottili violenze quotidiane, a sbarazzarsi del nuovo insegnante, come dei suoi predecessori.
Thackeray parte adottando il classico metodo della lavagna e dei compiti, ma ben presto si rende conto di trovarsi di fronte a ragazzi che hanno bisogno di altro. Hanno bisogno di un adulto presente e deciso ad assumersi la responsabilità di adulto, di fiducia e di coinvolgimento, di sentire che quello che si impara a scuola ha a che fare con la vita. La svolta avviene quando l’insegnante riesce a ottenere il permesso di portare la classe a visitare il British Museum. I giovani ribelli, ma in realtà prigionieri di vite in cui è la violenza la materia quotidiana, l’indifferenza la porta blindata del cuore, si rendono conto che quello che possono imparare li libera, li può portare via da un declino segnato, può tirare fuori da loro capacità inattese. Thackeray non è più il nemico, ma l’alleato, quello che riaccende la luce della speranza e il motore della volontà.
La conclusione segue la via del più scontato buonismo: i ragazzi si ravvedono, portano a termine l’anno, coltivando persino qualche sogno per il futuro. E in un corale afflato di gratitudine circondano il maestro che, sopraffatto dall’emozione, capisce che l’insegnamento è la strada che vuole percorrere, stracciando le altre opzioni lavorative.
Il film ha cinquantasei anni, uscito prima della rivoluzione sessantottina, anche a questo deve un linguaggio desueto e la sensazione di storia già vista: scuole e studenti difficili sono stati e sono spesso oggetto di riduzioni cinematografiche. Ma proprio quell’impressione di racconto non originale fa cogliere nel film elementi di attualità e almeno due portano in Piccioletta Barca.
“Così, voi siete il nuovo agnello sacrificale” è l’inusuale benvenuto nella scuola, che il professor Weston rivolge a Thackeray. “No, sono solo un maestro”, è la risposta del nuovo arrivato.
Nella parola “maestro” non c’è solo l’idea di un trasferimento di conoscenze, ma la volontà di mettersi accanto ai ragazzi, con la voglia di aprire strade, di sostenerli e, quando il terreno si fa insidioso, di aiutarli a non perdersi.
Mentre Thackeray pronunciava la sua frase, io pensavo a Beatrice (Gatteschi, presidente della Piccioletta Barca — ndr), alle tante volte in cui, presentandosi, si definisce una “maestra di periferia”, mettendo in quelle parole l’affetto per i ragazzi, ma anche la visione del mondo, in cui essere adulti non può bastare, se non si condivide quel che si è imparato con chi sta crescendo, e l’intenzione dell’agire, che è portare un cambiamento nel mondo rendendo la cultura materia viva per i ragazzi.
Si chiamano maestre anche le volontarie della Piccioletta Barca, che, ogni settimana, accompagnano i ragazzi in un percorso di acquisizione di sempre maggiore consapevolezza della parola scritta e orale. Anche loro, come Thackeray sono approdate al ruolo di “insegnanti” arrivando da esperienze diverse, ma con il giovane docente londinese condividono la voglia di guardare i ragazzi al di là dei voti, al di là dei momenti di distrazione e svogliatezza e, a volte, della resistenza che sembrano opporre.
La cultura non è una giustapposizione, non è meccanico risultato dello studio. E’ qualcosa che avviene in un incontro, con un libro, un’opera d’arte, una composizione musicale, un museo, ma anche con chi ce li ha fatti conoscere. E quell’incontro trasforma chi impara e chi insegna. Nel film, come nel mondo reale, i ragazzi — ancora di più, come nel film, quelli che sembrano confinati in periferie, geografiche e sociali — hanno bisogno di adulti che li guardino, che li vedano, che li considerino capaci di pensieri grandi, anche quando sono ancora piccoli. Quel continuo gioco di piccoli che si confrontano col grande è il segreto di una vita in cui non smettere mai di porsi in ascolto.
Segreto che in Piccioletta Barca ha la sua forma nell’Accademia, dove, sabato dopo sabato, guidati da Beatrice e Roberto (Maier, vice presidente della Piccioletta Barca — ndr), i ragazzi stringono alleanza con il pensiero, si confrontano con i grandi classici, imparano ad alimentare e tenere viva la curiosità, che li farà crescere capaci di prendersi cura dell’umano e di non accontentarsi di risposte semplici, ma di interrogare e rispettare sempre la complessità del mondo.