
Al maestro, con affetto

ENERGIA DELL’ENERGIA
TONNELLATE DI BENE

Nelle periodiche emersioni e immersioni dei temi tipiche dell’informazione contemporanea, al termine dell’estate è stato il turno della delinquenza minorile, delle Baby-Gang, che minacciano la sicurezza dei cittadini. Il tema è stato sollevato da fatti di cronaca particolarmente gravi, avvenuti nel comune di Caivano; come da copione, le telecamere si sono accese, l’opinione pubblica si è infiammata, il governo si è interrogato e ha fornito una risposta che è stata valutata da opinionisti ed esperti. Tutti si sono agitati per qualche giorno. Poi tutto è tornato silenzioso, come se niente fosse. Per chi si occupa di educazione in situazioni sociali complesse, invece, la tranquillità non è tornata e le domande non si sono quietate.
C’è una prima lezione che vorrei trarre da questo inizio di settembre: benché ‘emergenza educativa’ sia diventato un termine d’uso comune, l’educazione non si accorda ai toni dell’emergenza, tipici, piuttosto, della comunicazione di massa. Per alcuni versi, anzi, sarebbe meglio tacere, perché non c’è niente di peggio che prendere dei ragazzi, metterli a cuocere per un po’ sotto i riflettori e poi dimenticarsi di loro, passando al matrimonio del regale di turno o allo spread che cresce. Qualunque educatore sa che l’attenzione che dedica oggi ai più piccoli dischiude una promessa per il domani: se domani il tuo interesse evapora, la promessa diventa una beffa e tanto valeva non incominciare.
Una società che discetta di educazione non è una società che educa. Per educare, ci vuole ben altro.
Per esempio, ci vuole conoscenza. La devianza giovanile non incomincia a esistere solamente perché i giornali prendono a usare la parola ‘Baby-gang’. Un interessante studio sulle Gang giovanili in Italia (1), pubblicato nel 2022 da Transcrime (un centro di ricerca sulla criminalità transnazionale gestito dall’Università Cattolica di Milano, dall’Alma Mater Studiorum di Bologna e dall’Università di Perugia) sottolinea come, di fronte all’esponenziale crescita del tema sui media nazionali (da poco più di 600 articoli nel 2017 a oltre 4000 nel 2022) non corrisponde alcun reale incremento di comprensione del fenomeno. In altre parole: parliamo molto di ciò che capiamo poco: «il tema delle gang giovanili in Italia è un fenomeno complesso che include gruppi con finalità e modalità operative anche molto diverse. Queste differenze si riflettono anche sulle ipotesi riguardo le specifiche cause e motivazioni alla base di questi gruppi che dovrebbero quindi essere analizzate e approfondite singolarmente» (p. 25). Ripensando con un po’ di distanza alle reazioni della classe politica, alle affermazioni degli intellettuali, al fiume di parole spese sui social a proposito del «decreto Caivano», una cosa è chiara: non c’è molta consapevolezza del fatto che sappiamo troppo poco e non c’è traccia della volontà di capire, di «analizzare e di approfondire». Tutti hanno esibito certezze: alcuni, rappresentanti e sostenitori dell’attuale Governo, sottolineando la necessità di reagire con il pugno duro, di ribadire la certezza della pena, facendo tintinnare le manette anche per i minori. Altri, al contrario, giurando che i ragazzi non hanno colpa: la responsabilità è delle periferie degradate, della criminalità organizzata che recluta nuovi adepti, delle storie di immigrazione e di povertà che hanno alle spalle; è il Covid, sono i social media… Dall’analisi condotta da Transcrime, invece, emerge un profilo ben più inquietante: dopo aver elencato alcune cause possibili, lo studio conclude che nessuna di queste è decisiva, poiché «diversi casi riportati evidenziano come alcuni giovani scelgano di fare parte di gang (…) poiché annoiati, privi di stimoli o incapaci di relazionarsi con i propri pari» (p. 25). Spesso i minori che delinquono, insomma, lo fanno per noia. La noia non è una colpa, né una malattia, né un disagio sociale. A me sembra, piuttosto, un dito puntato verso il mondo che abbiamo costruito.
Siamo l’epoca che, come nessun’altra, ha messo la realtà a portata di mano, fornendo per qualunque desiderio una risposta accessibile. Senza sforzo, sulla rete, un giovane trova tutta la musica che può desiderare; ha accesso a tutorial per imparare a fare di tutto: suonare uno strumento e persino costruirselo, cucinare, disegnare fumetti, leggere il persiano antico. E poi ci sono giochi, svaghi, divertimenti di ogni genere, più di quanto qualunque generazione precedente potesse immaginare. Come può essere la noia l’origine di un disagio così profondo?
In un suo famoso romanzo, il filosofo Jean-Paul Sartre descrive la nausea – qualcosa di diverso, ma di molto prossimo alla noia – come un «orrore di esistere», un angoscioso disgusto per la vita, generato da un eccesso di essere: è il troppo a generare la nausea, l’incombere di una presenza debordante, un’invadenza della realtà. Una realtà talmente disponibile da schiacciare ogni desiderio, proprio come quando ci si trova di fronte a un pasto insostenibilmente ricco e non se ne può più. È davvero così? Dobbiamo rimproverarci di aver dato troppo ai nostri figli? Si stava meglio quando si stava peggio?
Io non credo. L’infanzia e la giovinezza sono quei tempi della vita in cui c’è bisogno di essere riempiti, ricolmati di bene, abbondantemente e gratuitamente. È una caratteristica biologica tipica dell’homo sapiens, che gli scienziati chiamano altricialità: siccome i cuccioli nascono incapaci di sopravvivere, senza artigli e zanne, gli adulti sono costretti a un lunghissimo tempo di accudimento. Così, ogni essere umano può diventare adulto solo se altri si fanno garanti della sua crescita, lo accudiscono e lo nutrono, riversando su di lui enormi quantità di cura, tonnellate di bene. In nessun’altra specie animale questa fase si protrae così a lungo ed è durante l’accudimento che sorge quella caratteristica esclusivamente umana che chiamiamo coscienza di sé.
In Piccioletta Barca, dedicandoci ai piccoli, noi facciamo proprio questo: diamo loro il meglio, niente meno del meglio, e lo diamo in abbondanza. Siamo convinti che l’educazione si basi sempre su un eccesso di bene e da anni lottiamo perché sia così. Ai piccoli non si raccontano frottole: i nostri incontri con loro sono preparati con la stessa cura che dedicheremmo a importanti convegni, a lezioni universitarie, a ricerche scientifiche, alla pubblicazione di libri; dietro a una sola ora di Accademia, tra la preparazione prossima e quella remota, ve ne sono in media almeno quattro di studio, di selezione paziente dei testi, degli esempi, delle domande da porci insieme. Gli ospiti che invitiamo a parlare ai ragazzi sono sempre uomini e donne che hanno dedicato la vita allo studio, alla ricerca, all’impegno politico o sociale e noi chiediamo loro di riservarci il meglio, tanto che le iniziative dedicate ai ragazzi delle medie e ai bambini delle elementari risulterebbero appassionanti anche per qualunque adulto. Siamo convinti che nessuna risorsa sia sprecata, quando lo scopo è la nascita di una coscienza libera e adulta. Quando abbiamo incominciato a pensare la Piccioletta Barca, un’amica ci ha detto che non serve dare la torta a chi non ha nemmeno il pane: intendeva un po’ dissuaderci dal leggere i grandi classici a ragazzi che a mala pena conoscono la grammatica. Noi non l’abbiamo ascoltata e, ai nostri ragazzi, continuiamo a offrire un menù completo e abbondante da ristorante stellato. Però l’immagine ci ha messo sull’avviso: di fronte a pietanze prelibate e disponibili, il rischio della nausea è sempre dietro l’angolo.
Per questo, in Piccioletta Barca, oltre a nutrire i nostri piccoli soci con quanto di meglio abbiamo, facciamo sempre anche un’altra cosa: chiediamo loro di rispondere, di prendere la parola, anche solo per riconoscere la bellezza di quanto abbiamo scoperto insieme. I nostri ragazzi non sono mai costretti a intervenire, non ci piace forzarli a lunghi discorsi che rischiano di diventare inautentici: ci basta una battuta, una parola; talvolta anche solo un sorriso è sufficiente. Ma, quando ci capita di intuire che uno dei piccoli dà per scontata la ricchezza che stiamo condividendo, lo prendiamo da parte; gli spieghiamo che, senza il suo contributo, senza quella parola che solo lui può pronunciare – perché lui solo la sa – siamo tutti più poveri; sanno che la Piccioletta Barca nemmeno ci sarebbe, senza di loro. E intuiscono che, del bene ricevuto, devono farne qualcosa per gli altri: se non trova una destinazione buona, tutta la cultura del mondo non serve a nulla. Chiedere una risposta, portarli a diventare interlocutori, non è un’operazione facile: anzitutto si deve avere la coscienza a posto, si deve essere certi di aver dato loro niente meno del meglio. E poi ci vuole delicatezza, ma anche determinazione; ci vuole molto affetto, ma bisogna anche saper rischiare, che è la parte più difficile. La virtù del dono, però, si chiama generosità: ha a che fare con la capacità di far nascere qualcosa nell’altro, non con la quantità di oggetti, informazioni o servizi forniti. Sartre ha ragione: il troppo genera nausea; il troppo, però, non è questione di quantità, ma di destinazione: perde ogni gusto ciò che ti diventa indifferente e ciò che è indifferente alla tua risposta. L’antidoto alla nausea è ricordare ai ragazzi che loro devono fare la differenza.
Non ho soluzioni facili da proporre contro la criminalità minorile. Ma so che gli adulti di oggi non hanno la coscienza sufficientemente pulita da potersi semplicemente occupare di inasprire le pene, lasciando che siano i ragazzi gli unici a pagare. Il sistema penale minorile italiano, che fino a oggi ha visto pochissime carcerazioni, avvalendosi soprattutto della messa alla prova, è stimato in tutto il mondo. I minori che finiscono in comunità educative come Kayròs di Milano («non esistono ragazzi cattivi», dice il fondatore Claudio Burgio), vengono incontrati uno per uno, accompagnati e amati oltre i loro atti criminali: il tasso di recidiva è tra i più bassi in Europa. Certo, sogniamo tutti l’arrivo di quel giorno in cui non ci sia più bisogno di comunità per minori, ma sognare non basta; non mi pare che il mondo degli adulti stia facendo le due cose necessarie all’educazione di una coscienza: riservare ai ragazzi tonnellate di bene e, al contempo, eleggerli a interlocutori privilegiati e abituali. Se ci accorgiamo di essere venuti meno a questo, dovremmo partire da qui.
Altrimenti qualunque punizione – paternalisticamente invocata ‘per il loro bene’ – diventa una beffa: pretende una presa di responsabilità da coloro le cui risposte non abbiamo mai voluto ascoltare.
(1) E. U. Savona, M. Dugato, E. Villa, Le gang giovanili in Italia, in «Transcrime Research in Brief — Serie Italia» 3 (2022), 5–33. https://www.transcrime.it/wp-content/uploads/2022/10/Le-gang-giovanili-in-Italia.pdf